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69 ISTORIA LITERATURII ITALIENE ÎNTRE SECOLELE XV-XVII Prof. univ. dr. Rodica LOCUSTEANU Obiettivi: Conoscere la letteratura italiana del Cinquecento, Seicento, Settecento; saper fare relazioni, commenti, racconti, riassunti, analisi testuali correttamente da punto di vista contenutistico e linguistico. Semestrul II IL SEICENTO Il Barocco è il movimento culturale peculiare del Seicento. Il termine sembra derivare da una parola memoriale cioè un’artificio per ricordare con l’aiuto delle iniziali una delle forme più complesse del sillogismo, una specie del sillogismo contorto. Ma nella letteratura il termine va mutuato dalle arti figurative. Altri teorici lo fanno derivare dal nome spagnolo e portoghese di una perla irregolare. Solo nell’Ottocento, nell’opera di Heinrich Wolflin Rinascimento e Barocco si fa un confronto preciso antitetico dei due movimenti. Alla base del gusto barocco sta la concezione edonistica dell’arte il cui fine e “dilettare” non già l’ammaestrare, dilettare “il comun popolo”. Questa volontà di piacere al pubblico spiega la rivendicazione della libertà dell’artista che alimenta gli artisti secentisti contro le regole del classicisimo. L’ingegno è una facoltà divisa dall’intelletto e controllata dal “gusto”. La libertà si confonde spesso con il “capriccio”, mentre il “dilettare” si trasforma rapidamente in “meravigliare”. Infatti accanto alla concezione edonistico dell’arte alla base del gusto barocco c’è la tendenza allo stupefacente e al “meraviglioso”. Il poeta Marino ne dà una definizione assai chiara: “è del poeta il fin la meraviglia/ Parlo dell’eccellente e non del goffo/ chi non sa far stupir vada alla striglia”. Di qui la ricerca della novità, della stranezza, degli atteggiamenti fuori del comune sia nel campo delle parole e dei loro nessi sia in quello delle immagini e delle metafore. Però quest’ ideale della novità dev’essere preso con un granello di sale, perché la lirica seicentesca non inventa nulla, ma utilizza il gran repertorio di situazioni e di moduli stilistici dal Petrarca al Tasso. Di conseguenza la novità e la libertà più che nei contenuti vanno ricercate nella capacità delle più diverse combinazioni dei motivi e delle immagini tradizionali, nell’esasperazione fino all’assurdo dei loro significati letterali e dei rapporti metaforici, la ricerca del concettismo” (trovate ingegnose, giochi di parole, svariatissime combinazioni di elementi stilistico – retorici). Il concettismo è il denominatore comune della poesia seicentesca, marinista e antimarinista e si fonda sul parossismo della metafora.

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istoria limbii italiene

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ISTORIA LITERATURII ITALIENE

ÎNTRE SECOLELE XV-XVII

Prof. univ. dr. Rodica LOCUSTEANU

Obiettivi : Conoscere la letteratura italiana del Cinquecento, Seicento, Settecento;

saper fare relazioni, commenti, racconti, riassunti, analisi testuali correttamente da punto di vista contenutistico e linguistico.

Semestrul II

IL SEICENTO Il Barocco è il movimento culturale peculiare del Seicento. Il termine sembra

derivare da una parola memoriale cioè un’artificio per ricordare con l’aiuto delle iniziali una delle forme più complesse del sillogismo, una specie del sillogismo contorto. Ma nella letteratura il termine va mutuato dalle arti figurative. Altri teorici lo fanno derivare dal nome spagnolo e portoghese di una perla irregolare. Solo nell’Ottocento, nell’opera di Heinrich Wolflin Rinascimento e Barocco si fa un confronto preciso antitetico dei due movimenti.

Alla base del gusto barocco sta la concezione edonistica dell’arte il cui fine e “dilettare” non già l’ammaestrare, dilettare “il comun popolo”. Questa volontà di piacere al pubblico spiega la rivendicazione della libertà dell’artista che alimenta gli artisti secentisti contro le regole del classicisimo. L’ingegno è una facoltà divisa dall’intelletto e controllata dal “gusto”. La libertà si confonde spesso con il “capriccio”, mentre il “dilettare” si trasforma rapidamente in “meravigliare”.

Infatti accanto alla concezione edonistico dell’arte alla base del gusto barocco c’è la tendenza allo stupefacente e al “meraviglioso”. Il poeta Marino ne dà una definizione assai chiara: “è del poeta il fin la meraviglia/ Parlo dell’eccellente e non del goffo/ chi non sa far stupir vada alla striglia”.

Di qui la ricerca della novità, della stranezza, degli atteggiamenti fuori del comune sia nel campo delle parole e dei loro nessi sia in quello delle immagini e delle metafore. Però quest’ ideale della novità dev’essere preso con un granello di sale, perché la lirica seicentesca non inventa nulla, ma utilizza il gran repertorio di situazioni e di moduli stilistici dal Petrarca al Tasso. Di conseguenza la novità e la libertà più che nei contenuti vanno ricercate nella capacità delle più diverse combinazioni dei motivi e delle immagini tradizionali, nell’esasperazione fino all’assurdo dei loro significati letterali e dei rapporti metaforici, la ricerca del “concettismo” (trovate ingegnose, giochi di parole, svariatissime combinazioni di elementi stilistico – retorici). Il concettismo è il denominatore comune della poesia seicentesca, marinista e antimarinista e si fonda sul parossismo della metafora.

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Ecco ad esempio una serie di paragoni e metafore tessuti dal poeta barocco Narducci intorno ai pidocchi della sua donna: “Sembran fere d’avorio in bocca d’oro/ Le fere erranti onde si ricca siete/ Anzi gemme son pur, che voi scotete/ Dall’aureo del bel crin natio tesoro”.

Anche se possiamo parlare di un virtuosismo formale assoluto e di ardite esibizioni tecniche, questa meraviglia deriva talvolta anche da una visione del mondo sempre più nuova e più vasta che la metafora o l’analogia tenta di esprimere cogliendo così una realtà sfuggente.

Il letterato barocco oppone un rifiuto alla “regolarità” rinascimentale rivendicano la libertà dell’ingegno, cioè la capacità immaginifica e il diritto di contravenire alle regole. “La vera regola è saper rompere le regole a tempo e a luogo” – scrive Marino affermando la superiorità dei tempi moderni su quegli antichi, e dell’esperienza propria sull’imitazione.

Giambattista Marino (1569-1625)

Giambattista Marino (1569-1625) è il maggior rappresentante della poesia

barocca. Nato a Napoli nel 1569, vi rimane fino al 1600 conducendo una vita piuttosto libera, dedita agli studi letterari e agli amori. Cosciente della necessità di avere un mecenate, entra a Roma al servizio di Melchiorre Crescenzi, poi del vescovo Aldobrandini. Nel 1608 si reca a Torino alla corte del duca Carlo Emanuele I. Vi subisce un tentativo di assassinio da parte di un rivale, poi viene messo in carcere per un anno a causa di maldicenze contro il duca. Costretto a lasciare Torino, si rifugia in Francia a Parigi, presso il re Luigi XIII, applaudito per il suo virtuosismo dagli ambienti letterari. Rientrato ormai trionfante in Italia, muore a Napoli nel 1625.

Il suo Epistolario è un documento importante della sua esperienza umana e artistica anche se non del tutto sincero. Marino si definisce come poeta che inaugura un nuovo stile, morbido, vezzoso ed attrattivo per un nuovo pubblico socialmente ed intellettualmente selezionato.

Le Rime del 1602, aumentate e ristampate col titolo di Lira snel 1614, comprendono componimenti di argomento amoroso, encomiastico e sacro, divisi sia per temi (rime d’amore, marittime, boscherecce, eroiche, lugubri e sacre), sia per metri poetici (madrigali e canzoni). Vi si avverte una tensione sperimentale in senso antipetrarchista. Il modello retorico è quello dell’analogia che produce spesso immagini preziose.

Un’altra raccolta lirica, Sampogna (1620), contiene rime divise in due parti. La prima parte racchiude idilli favolosi e pastorali, mentre la seconda rime boscherecce. La sua tematica è mitologica e pastorale. Il critico Alberto Asor Rosa vede nell’opera del Marino “una propensione a cantare l’amore che si esprime con l’aggressione e si consuma in una morbosità fantastica”.

Il suo capolavoro è considerato il poema Adone (1623), in 20 canti e all’incirca 40.000 versi, tessuti su una trama molto esile, quella dell’amore di Venere per Adone, il figlio di Ciniro, amore ostacolato dal geloso dio Marte, finché Adone viene ucciso da un cinghiale.

Accanto alle ampie divagazioni intorno al tema, alla sovrabbondanza di sensazioni e di descrizioni, nonche all’uso eccessivo della metafora, sono da rilevare alcuni tratti nuovi come l’indipendenza dal modello rinascimentale (non si ispira alla storia e non ha contenuti epici; si serve del mito per una specie di festa

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erotica; invece dello sviluppo narrativo si ha una ricca succesione di immagini e di sensazioni). Sono da menzionare l’ammirabile perizia tecnica, immagini stupefacenti, il sottile gioco dell’intelligenza, una vena sensuale e idillica che fa sì che talvolta la poesia si sciolga in un puro suono musicale

Altre opere sono: Galleria che comprende descrizioni in versi di quadri e di sculture e il poema sacro La Strage degli innocenti. Molto famoso ai suoi tempi il Marino era infatti l’espressione di un movimento e di un gusto che si veniva affermando in tutta l’Europa: il preziosismo in Francia, l’eufuismo in Inghilterra, il gongorismo in Spagna, il marinismo in Italia.

Ha molti imitatori chiamati “marinisti” di cui ricordiamo i nomi di Claudio Achillini e Girolamo Fontanella. Più interessante è Ciro di Pers che si allontana cantando con accenti appassionanti il tema del tempo e della morte come nel suo più famoso carme: Orologio da polvere.

Parallelamente all’affermazione di Marino e della sua poetica della meraviglia si manifesta anche la reazione al marinismo la quale, pur rifiutando gli eccessi del marinismo, resta sempre nell’ambito del concettismo e della ricerca del nuovo.

Gabriello Chiabrera (1552-1626), rifiuta la tradizione italiana risalendo ai classici greci, a Pindaro per le canzoni eroiche, ad Anacreonte per le canzonette idilliche, ma imitando piuttosto i poeti francesi della Pleiade come Ronsard. Però il suo tono eroico resta esteriore e le più riuscite sono le canzonette idilliche e musicali. Belle rose porporine.

Un altro poeta notevole è Fulvio Testi (1593-1646), che pratica una poesia d’ispirazione eroica rivolta contro il dominio spagnolo, rimpiangendo la decadenza italiana e mettendo la speranza nel duca di Savoia.

La poesia satirica ed eroicomica

Un altro ambito nella cultura secentesca è costituito dalla poesia satirica ed

eroicomica dove si manifesta la critica più spregiudicata alle classi dominanti e alla cultura ufficiale riformista e controriformista e si esalta la libertà della ricerca e del pensiero nonché la forza della ragione che toccherà il colmo nella prosa scientifica.

Traiano Boccalini (1556-1613) E uno degli scrittori di opposizione specialmente nel campo politico. Nelle

sue opere Commentari sopra Cornelio Tacito, Pietra del paragone politico, e I ragguagli di Parnaso dimostra un forte antispagnolismo, una certa intuizione dell’indipendenza dell’Italia e una ferma opposizione alla ragion di Stato in nome della morale. La sua interpretazione del Machiavelli fu ripresa più tardi da Ugo Foscolo nel carme I Sepolcri, dove Machiavelli appare come lo scrittore che ha saputo rivelare il vero volto del tiranno.

La sua opposizione si manifesta anche nel campo della letteratura. Nei Ragguagli lo scrittore immagina di essere il cronista delle discussioni che si svolgono nel Parnaso ciò che gli offre l’opportunità di “riprendere i vizi dei vivi nelle persone degli uomini morti”. Lui critica così i pedanti, gli aristotelici e le loro regole, ma apprezza un poeta come Tasso che aveva voluto seguire la propria natura. La sua vena satirica è mista di scetticismo e di tristezza, perché ha la coscienza dell’impossibilità di cambiare il mondo. Il finale del Ragguaglio 77 esprime proprio quest’incapacità umana di progresso: ‘in questo mondo la somma

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prudenza umana tutta sta nell’aver ingegno da saper fare la difficile soluzione di lasciar questo mondo come altri l’ha trovato”.

Alessandro Tassoni (1565-1635) Scrittore polemico e anticonformista è anche Alessandro Tassoni (1565-

1635), nato a Modena da nobile famiglia. Nei suoi 10 libri di Pensieri diversi, (Varietà di pensieri in nove parti) cui si aggiunge la decima parte Paragone degli antichi e moderni, Tassoni appare come antispagnolo e antiaristotelico, partigiano dei moderni contro gli antichi.

La sua vena polemica e satirica trova la massima espressione nel poema eroicomico La secchia rapita edito nel 1622 in 12 libri in ottave. Vi si racconta la guerra tra Modena e Bologna per il possesso di una secchia di legno rubata dai modenesi ai bolognesi. Si tratta di una guerra reale scoppiata nel 1325 a Zappolino, ciò che gli consente una satira degli odi municipalistici. Vi è un misciglio di varie epoche ed episodi d’invenzione come pure certi travestimenti caricaturali di alcuni personaggi contemporanei al poeta. Come elemento di novità entra in scena un esercito femminile condotto da Renoppia. Conformemente ad una profezia il personaggio chiamato a vincere il duello per la conquista di Renoppia sarà il più debole e il più vile di tutti, il conte di Culagna (in cui viene adombrato un certo conte Brusantini, nemico dell’autore). Questo s’innamora di Renoppia e vuol uccidere la moglie con una pozione appositamente preparata che beve però lui stesso confessando la verità. La sua viltà è tale che nel duello con il conte Titta sviene perché confonde un nastro rosso che portava addosso con il proprio sangue. Dopo le trattative condotte da un legato del Papa, tutto resta uguale, la secchia a Modena e re Enzo a Bologna.

Il poema eroicomico era una bella novità del secolo di cui Tassoni era ben consapevole quando affermava di aver voluto “inventare fuori della strada comune una sorta di poema che piaccia ugualmente ai dotti e agli idioti” .

Galileo Galilei (1564-1642)

“La riforma dei cervelli” come viene definita da Galileo Galilei, segna un

nuovo modo di pensare e un diverso spirito scientifico caratterizzato dal rifiuto dell’autoritarismo aristotelico, dal carattere pratico-operativo, dall’autonomia della scienza dalla metafisica e dalla teologia. L’uomo istituisce un nuovo rapporto con la natura vista come “un libro aperto” alla libera ricerca e un complesso di fenomeni fisici misurabili matematicamente e riproducibili sperimentalmente. Il metodo di ricerca diventa sempre più scientifico.

In Italia il maggior rappresentante della “nuova scienza” è Galileo Galilei (1564-1642). Fisico e matematico, insegna matematica a Pisa poi, dal 1592 al 1610, a Padova. Inesausto ricercatore scopre la legge dell’isocronismo del pendolo, inventa la bilancia idrostatica, perfeziona il cannocchiale che gli permette di esplorare la Via Lattea, la superficie lunare, l’anello di Saturno, quattro satelliti di Giove, di individuare la natura delle macchie solari, ecc.

Nel suo trattato Sydereus Nuncius (1610), Galilei polemizza contro la filosofia aristotelica sostenendo che bisogna adattare la filosofia a quanto ci rivela la natura e non viceversa: “accomodare la natura e il mondo alla peripatetica dottrina”, ma anche contro il sistema tolemaico a favore di quello copernicano. “Dio ci parla attraverso la natura non meno chiaramente che attraverso la Bibbia”.

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Ciò che che viene dimostrato dall’esperienza non può essere negato in base a certi passi dei Vangeli.

Il metodo sostenuto da Galilei si fonda sulla “sensata esperienza” (esperienza sensibile), e sulle “necessarie dimostrazioni matematiche” affinché si abbia una conoscenza certa del reale. Mentre le Sacre Scritture si prestano a varie interpretazioni “allegorica, simbolica, figurale, il libro della natura è scritto secondo un rigoroso linguaggio matematico ed è scritto direttamente da Dio”. Galilei cerca un compromesso tra fede e scienza ma le sue tesi vengono condannate dalla Chiesa. Nel 1616, il Sant’Uffizio lo chiama a pronunciarsi su due tesi: la stabilità del Sole e la sua centralità nell’universo, e il movimento della Terra. Egli riesce ad evitare il conflitto con la Chiesa continuando la sua strada.

Scrive nel 1623 Il Saggiatore, un’opera scientifica polemica in forma di lettera indirizzata a don Virginio Cesarini in cui si discutono le tesi sull’origine delle comete sostenute da Lottario Sarsi (pseudonimo del gesuita Orazio Grassi), contrapponendo metaforicamente il saggiatore, che è una bilancia di gran precisione per misurare l’oro alla rozza bilancia, chiamata libra, usata dal Grassi. La scrittura brillante ed ironica riafferma la giustezza del metodo fondato sull’osservazione della natura e sulla comprensione delle leggi matematici regolatrici. “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua, a conoscere i caratteri ne’quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche senza i quali mezzi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.

Nel 1632 Galilei pubblica il Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo in cui sottopone ad una critica sarcastica la teoria geocentrica tolemaica, dimostrando la giustezza di quella eliocentrica, ciò che scatena una reazione violenta. Il libro è ritirato e condannato, e l’autore processato nel 1633 è obbligato a rinnegare “gli errori” e condannato al carcere perpetuo. Data la sua età avanzata gli è concesso di vivere a Firenze in isolamento, poi ad Arcetri.

Il Dialogo è diviso in quattro giornate e vi partecipano come interlocutori: Simplicio, un filosofo aristotelico, il gentiluomo veneziano Sagredo e il fiorentino Salviati, amico di Galilei. Nella prima giornata si discute sulla natura dei corpi celesti che secondo Aristotele sarebbero “impassibili, impenetrabili, inalterabili” mentre Sagredo e Salviati dimostrano la loro affinità con la Terra la quale è solo una parte non il centro dell’Universo. La seconda e la terza giornata sono dedicate ai dibattiti sul rifiuto dell’autorità, sui limiti di un ragionamento fondato non sull’esperienza ma sulla filosofia aristotelica, e nella quarta giornata si discute la teoria della relatività del moto. La pagina è molto vivace, la discussione scientifica e metodologica chiara e precisa, il linguaggio aderente ai significati.

Galileo Galilei è considerato il fondatore della scienza moderna. Altri autori notevoli della prosa scientifica sono Francesco Redi (1626-1698),

medico, e Lorenzo Magalotti (1637-1712), scienziato romano.

Tommaso Campanella (1568-1639) Un atteggiamento ribelle e critico contro le dottrine scientifiche e filosofiche

dominanti, contro l’aristotelismo e il dogmatismo è quello dei “novi filosofi”. Giordano Bruno e Tommaso Campanella si trovano vicino a Galilei nel processo di

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rinnovamento dello studio della natura e della filosofia, per cui pagano il primo con la vita, bruciato sul rogo nel 1600, il secondo con una lunghissima prigionia.

Il Campanella nasce a Stilo, in Calabria, nel regno di Napoli dove entra nell’ordine domenicano ma si dimostra uno spirito libero e critico nei confronti della realtà politica, sociale e religiosa. Viaggia in Italia e conosce a Padova Galilei, però è costretto dall’Inquisizione di far ritorno in Calabria. Nel 1598 partecipa ad una congiura contro il dominio spagnolo parteggiando per la repubblica. Scoperto il complotto, è tratto in arresto per lunghissimi anni; tre anni nelle prigioni di Roma e ventisette in quelle di Napoli. Salvatosi dalla condanna a morte attraverso la simulazione della pazzia, viene finalmento liberato per intercessione di papa Urbano VIII, e si rifugia in Francia, nel 1629, dove muore dopo altri dieci anni.

Il suo pensiero politico si ritrova soprattutto nella Città del sole, un’utopia scritta nel carcere (1602). Ha la forma di un dialogo tra un cavaliere dell’Ordine di San Giovanni, (Ospitalario), e un nocchiero di Cristoforo Colombo, di nome Genovese, il quale racconta il viaggio compiuto nella Città del Sole, nell’isola di Taprobana, Costruita su un colle, abitata di una popolazione venuta dalle Indie, ha un’organizzazione gerarchico-piramidale. Al sommo sta un sacerdote chiamato Metafisico o Sole aiutato da tre magistrati Pon, Sin e Mor (Potenza, Sapienza, Amore), che governano rispettivamente l’armata, la cultura e la riproduzione. I loro diritti sono assegnati a vita in base alla loro cultura e saggezza. Anche i poteri del Metafisico. Sole sono fondati su una religione naturale, razionale e senza dogmi. La proprietà privata è abolita, tutti i beni sono messi in comune e distribuiti secondo il bisogno di ciascuno. La riproduzione non ha per base la famiglia, ma criteri mirati al miglioramento della razza. Il lavoro è uguale per tutti e dura solo quattro ore al giorno. L’istruzione e si fa in maniera collettiva. Tutti gli abitanti sono educati insieme a tutte le età, in tutte le scienze ed arti, tanto a livello intellettuale, che manuale “sempre con gaudio”, senza libri, grazie alle illustrazioni con le quali sono tapezzate le mura della città.

Campanella costruisce così un’utopia che ricorda quella di Thomas More, che non è tanto una fuga dalla realtà ma frutto della coscienza dei mali esistenti nella società e del desiderio di superarli.

Alti scritti teorici sono: La Monarchia di Spagna (1600) dove il disegno utopistico tende a identificarsi con situazioni reali, e Del senso delle cose e della magia in cui mette in risalto il senso interiore (“l’anima”) esistente nelle varie entità fisiche che compongono l’universo.

Il Campanella fu anche poeta e la sua raccolta di poesie Poesie filosofiche, apparve postuma(1662). Spirito contemplativo, ha un forte sentimento del divino e dell’infinità dell’anima, fiducia nella scienza e nella sapienza umana, che si esprimono in una lingua aspra e rozza.

Il teatro del Seicento

La letteratura barocca raggiunge nel teatro i risultati più notevoli grazie alla

sua stessa tendenza allo “spettacolo”, cioè ad una rappresentazione dei sentimenti esterna mirata a colpire i sensi dello spettatore Infatti, per tutte le manifestazioni del barocco, l’aggettivo più usato è “spettacolare”. Il teatro si rivolge ad un pubblico reale, non più ideale, sperimentando le novità tecniche bramate dai seicentisti.

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I due indirizzi fondamentali del teatro nel’ 600 sono lo sviluppo e l’affermazione definitiva della Commedia dell’Arte e quella del melodramma.

La Commedia dell’Arte Costituisce il fenomeno culturale più rilevante del Seicento italiano, da dove

si sparge in tutta l’Europa. Iniziata alla metà del Cinquecento, alla sua base stanno tanto le commedie antiche greche e latine, quanto le farse popolari italiane e ancora, anche se per antitesi, la commedia colta, erudita, italiana. Il suo nome esprime la novità dell’idea di una commedia recitata da attori professionisti, perché l’arte ha il senso di “mestiere”. Si tratta di comici organizzati in compagnie teatrali, che rappresentano un’organizzazione nuova di attori specializzati attraverso un addestramento tecnico, mimico, vocale, coreografico, acrobatico che spesso hanno anche una certa preparazione culturale.

Questa commedia è chiamata ancora “commedia a soggetto” , “all’improvviso” “buffonesca”,”istrionica” o “di maschere” , nomi che alludono ai suoi caratteri specifici.

Si chiama “a soggetto” perché è una commedia improvvisata, non esiste un testo scritto, un “copione”, ma un semplice “canovaccio” che contiene lo scenario o la trama. Il resto è attribuito alla fantasia degli attori che devono improvvisare le scene completandole con dialoghi, monologhi e soprattutto con “i frizzi”, cioè motti di spirito molto pungenti, con “lazzi”, quindi con acrobazie aiutate dalla mimica e dall’atteggiamento gestuale, tutti quanti mirati a suscitare il riso degli spettatori.

Col tempo questi dialoghi vengono raccolti in certi “zibaldoni”, di cui gli attori si servono. Vista la difficoltà dell’improvvisazione sempre nuova, gli attori si specializzano nell’interpretazione di un solo ruolo diventato un ruolo fisso, usando una “maschera”.

Tra le principali maschere si numera quella di Pantalone, la cui etimologia deriva dal nome veneziano, San Pantaleone, oppure da Piantaleone, ricordo dell’uso veneziano di erigere il drappello del Leone di San Marco nelle terre conquistate, o dai lunghi pantaloni che soleva indossare nel Seicento. Lui incarna il tipo del vecchio mercante, avaro, brontolone, geloso dei giovani, ma alle volte, innamorato di una giovane, ridicolo e per questo beffato. La sua maschera ha un naso adunco, una barba aguzza e scarpe a punta rialzata come era l’uso veneziano.

Un’altra maschera è quella del Dottore bolognese (dottor Graziano detto Balanzon) di solito giureconsulto che incarna il tipo del pedante, del falso scienziato. Porta una toga nera dello Studio di Bologna da cui proviene e al cui dialetto si appoggia.

Una maschera tipica dell’età è quella del Capitano, il quale eredita un tipo umano già famoso nella commedia greca e in quella plautina; il Miles gloriosus del Plauto. Il Capitano porta diversi nomi: Capitan Spaventa, Rodomonte, Matamoros, Bombardone, Spezzaferro, Spaccamonte, Fracassa, ma conserva un’unica identità negli atteggiamenti militareschi e fanfaroni. Il personaggio vuol ridicolizzare i dominatori spagnoli e la loro vanagloria, perciò il suo linguaggio è pieno di spagnolismi maccheronici.

Forti note comiche s’accentrano negli “Zanni”, o “buffoni”. La loro etimologia deriva da Zan, Zuan, Gian, Giovanni, che sono prenomi di molti fra questi buffoni (Zan Cappella o Gian Cappella) e sono diminutivi del nome Giovanni.

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Il primo Zanni è Brighella, che incarna il servo astuto e furbo di origine bergamasca, più precisamente dalla Bergamo alta, cui si aggiunge il secondo Zanni, Arlecchino inizialmente servo sciocco e goloso, beffato e bastonato sempre, proveniente dalla Bergamo bassa. Alle volte però le loro parti si capovolgono e si fondono in un unico tipo che è un misto di furberia e di balordaggine.

Il terzo Zanni è Pulcinella, il cui nome deriva da piccolo pulcino. Vestito tutto di bianco, ha per l’ideale il dolce far niente, sognando maccheroni, ma capace di fare un po’ di tutto, nel bene e nel male: di esser ladro, truffatore, lasciandosi portare dai suoi istinti. A differenza degli altri, Pulcinella canta e prende il mondo con filosofia.

La schiera degli zanni è molto ampia, comprende all’incirca ventiquattro tipi tra cui accenniamo solo a Scapino, ripreso da Molière col nome di Scapin, e a Pedrolino che si diffuse in Francia col nome di Pierrot, e in Russia col nome di Petrushka. Ai servi si accostano le Servette o le Fantesche. Giovani, carine, indipendenti, portano vari nomi, come Smeraldina, Diamantina, Corallina, Colombina, di solito parlano il toscano e alla fine si sposano con i servi. Sempre in toscano letterario parlano gli Innamorati che sono a coppia e i cui principali tratti dovevano essere l’eleganza e la grazia. Fra gli uomini si numerano Cinzio, Fabrizio, Flavio, Lelio; fra le donne, Angelica, Aurelia, Flaminia, o Lavinia. Spesse volte prendono il nome dell’attore o l’attrice che lo interpreta. Le compagnie teatrali contano al massimo dieci o dodici persone. La commedia dell’arte imprime una svolta importante nel teatro del Seicento.

La questione della lingua

La questione della lingua nel Seicento è ormai limitata al dibattito sulla

norma linguistica a sulla individuazione dei “buoni autori”. L’Accademia della Crusca, che era stata fondata a Firenze nel 1583, pubblica nel 1612 il Vocabolario, che non è descrittivo ma ‘storico’, ed indica le voci ammesse nella lingua letteraria. I ‘buoni autori’ sono prima di tutto le ‘Tre Corone’, poi gli autori, anche minori e minimi, della tradizione toscana arcaica, considerata come dotata di “naturali” virtù linguistiche; pochi i “moderni”, scelti con estrema cautela e con occhio rivolto alla toscanità. Questo costituisce uno statuto definitivo della lingua letteraria in senso fiorentino; da cui iniziano polemiche ricorrenti, e varie tensioni verso il purismo, che si svilupperanno nei secoli successivi.

Un volta codificato il toscano, si differenzia consapevolamente l’uso dei dialetti, talvolta per esigenza locale, ma piu spesso come scelta programmatica di uno strumento diverso per esigenze tematiche diverse: uomini di cultura e scrittori in lingua adoperano il dialetto per prodotti considerati minori, finalizzati alla parodia, al divertimento , alla opposizione (per il Milanese - Carlo Maria Maggi, per Bologna - Giulio Cesare Croce, per Napoli- Gianbattista Basile).

IL SETTECENTO

Nel primo Settecento la presenza straniera più importante in Italia è l’Austria,

nel Meridione quella dei Borboni mentre nel Piemonte si afferma sempre più la casata dei Savoia, che fanno pure l’annessione della Sardegna. Si ha un graduale miglioramento economico e sociale, le communicazioni fra i vari stati diventano più facili ma il progresso è lento e disuguale in un’Italia ancora frammentata.

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L’impronta fondamentale alla cultura è data dalla Ragione, dall’interesse per la scienza e il metodo scientifico già sviluppatisi nel Seicento, come succede dell’altro nel resto dell’Europa Occidentale, nella Francia e nell’Inghilterra con le quali gli italiani stringono forti rapporti culturali mediante viaggi e corrispondenze.

L’intellettuale è di solito un uomo di cultura impegnato civilmente nella sua società. Si ha una grande crescita dell’erudizione. In questo senso sono da ricordare gli studi storici ed eruditi di Ludovico Antonio Muratori e di Pietro Giannone.

Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), bibliotecario, archivista, raccoglitore di documenti per il Medioevo nasce nel ducato Estense, dove svolge una fervida attività storica sorta proprio dal bisogno di difendere il Ducato dalle pretese dei papi. Perciò scrive le “Antichità Estensi” e poi “Rerum Italicarum Scriptores” una raccolta monumentale, con la collaborazione di studiosi di tutta Italia, in cui fa uso delle più svariate fonti cronachistiche, letterarie, giuridiche e epigrafiche per rievocare la storia d’Italia dal 500 al 1500, libro ancora oggi fondamentale per la storia del Medioevo italiano. Altre opere importanti sono “Antiquitatis Italicae Medii Aevi” e gli “Annali d’Italia”. La narrazione rispetta la verità dei fatti, lo stile è chiaro e semplice lasciando vedere i suoi ideali morali e letterari, tra cui soprattutto un ideale nazionale non retorico ma modellato sulla storia.

Contemporaneo di Muratori anche se lontano per metodo e per indirizzo è l’altro storico del Settecento, Pietro Giannone (1676-1748). Meridionale, lui scrive la “Istoria del Regno di Napoli”, un’opera militante alla difesa dei diritti dello stato nei confronti delle pretese eclesiastiche, solida dal punto di vista storiografico ma anche polemica ed aggressiva, rispondente al gusto riformistico del tempo per l’attenzione data alla cultura e al problema dei suoi rapporti col potere politico, per la considerazione della Chiesa come organismo mondano, nonché per un metodo storiografico inteso a dar spazio non alle descrizioni delle battaglie ma all’amministrazione politica per quindici secoli: al governo politico ed eclesiastico alle leggi, ai cambiamenti sociali, ecc. Un’altra sua opera fondamentale è il “Triregno” in cui l’autore parla dell’esistenza di tre regni fondamentali:

• Il Regno terrestre , che consiste nell’aspirazione del popolo ebreo ad un impero;

• Il Regno celeste , quello dell’aldilà sognato dal Cristianesimo; • Il Regno papale, quello della Chiesa contemporanea, degenerazione del

Cristianesimo a causa dei papi. Perseguitato dalla Santa Sede per le sue idee Pietro Giannone deve fuggire a

Vienna, ma poi è arrestato in Savoia e trascorre gli ultimi anni di vita nelle carceri del Piemonte.

Giambattista Vico (1668 – 1744)

È il maggiore pensatore del Settecento. Nasce a Napoli nel 1668. È prima

precettore nella famiglia dei marchesi Rocca, poi, nel 1697, diventa professore di eloquenza nell’Università di Napoli ma è poco compreso dai contemporanei. Vive piuttosto isolato, dibattuto tra problemi famigliari ed economici, e muore malato nel 1744.

Scrive sette orazioni inaugurali per gli inizi degli anni accademici ma ne pubblica solo una De nostri temporis studiorum ratione (1708), in cui polemizza contro il metodo cartesiano. Nel 1710 scrive il trattato De antiquisima italorum

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sapientia, e nel 1725 un’Autobiografia in cui rievoca la sua vita tra il 1725 e il1731, ma la sua opera fondamentale è Principi di una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, che comprende tre redazioni: nel 1725 a spese dell’autore, nel 1730, e l’ultima, uscita postuma nel 1744, con cambiamenti e ampliamenti.

Vico è scoperto e ammirato solo alla fine del Settecento e, in seguito, dai romantici.

La Scienza nuova fondamenta il moderno concetto di storia. Secondo Vico l’uomo può conoscere solo quello che fa, “verum ipsum factum”, quindi la storia non la natura che è opera di Dio. Il pensiero e il fare s’identificano, la vera scienza nuova è la storia, intesa non come un’accumulazione, come un groviglio di fatti ma come sviluppo dell’umanità secondo leggi che la regolano e secondo cicli di progresso e di decadenza chiamati “corsi e ricorsi”.

L’umanità procede nella sua storia attraverso tre gradi di sviluppo corrispondenti alle tre fasi dello sviluppo del singolo individuo, cioè l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta; “Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”. (LIII)

Le tre fasi dell’umanità sarebbero le seguenti: • La prima fase: instintiva e sensoriale, l’età degli dei – diritto divino – governo teocratico – mezzo di communicazione: il linguaggio delle cerimonie religiose (infanzia) • la seconda fase: emotiva e fantastica, l’età degli eroi – diritto eroico – governo aristocratico – il linguaggio fantastico dei miti (fanciulezza, adolescenza) • la terza fase: razionale, l’età degli uomini – diritto umano – governo repubblicano o monarchico – linguaggio logico (età adulta) Questa è la fase “dettata dalla ragione umana tutta spiegata”. Dopo questo

momento segue la decadenza e poi la ripresa di un nuovo ciclo o “ricorso”. Lo strumento di studio della scienza nuova è la filologia per la sua capacità di decifrare le testimonianze storiche scritte.

Studiando la civiltà umana nelle sue prime manifestazioni Vico scopre l’autonomia della fantasia. Il momento della fantasia è anteriore al “raziocinio”: “La fantasia tanto più è robusta quanto è più debole il raziocinio”. (XXXVI)

La fantasia opera in modo istintivo e alogico e raggiunge una conoscenza diversa da quella razionale ma più concreta e più forte.

È il momento in cui si colloca la poesia considerata forma di conoscenza. Lui scopre così l’origine poetica del linguaggio, la natura delle favole e dei miti reputati “universali fantastici, anteriori agli universali ragionati”. Perciò nell’intento di ricostruire l’età preistorica si fonda non tanto sulle scoperte delle vestigia archeologiche quanto sui documenti letterari come la Bibbia e i poemi omerici, sui miti e sulle leggende che sono “favolose rappresentazioni” di

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situazioni reali.Anche le parole sono spesso testimonianze di situazioni reali.La poesia è vista da Vico nella sua nascita storica come espressione della società, come conoscenza totale del mondo “vera narrazione”. I poeti dovettero essere i primi storici delle nazioni. La poesia è quindi un fatto sociale e colletivo, perciò narrativo ed epico non individuale e lirico. La storia segue secondo le sue leggi oggettive dove ”l’ordine delle idee” procede secondo “l’ordine delle cose”, cioè fatti sociali: matrimoni, sepolture, riti propiziatori, ecc.

Nell’opera di Vico troviamo il superamento del razionalismo cartesiano (lui sostiene l’arbitrarietà dei segni matematici) e la scoperta della storia; il superamento delle concezioni edonistiche sull’arte sostituite dall’interpretazione della poesia come forma di conoscenza, diversa da quella razionale per il peso degli elementi fantastici; il superamento del gusto classico (rinascimentale o settecentesco) e la scoperta del primitivo e della grandezza dei poeti primitivi.

Le centoquattordici proposizioni (“assioni o degnità”) contenenti i principi della nuova scienza sono espresse in un linguaggio solenne è vigoroso, conciso e lapidario.

L’Arcadia Il periodo tra l’ultimo decennio del Seicento e circa la metà del Settecento

prende il nome dalla più famosa Accademia letteraria dell’epoca, l’Arcadia, nata il 15 ottobre 1690, quando quattordici letterati si ritrovano a Roma, nel giardino dei Padri Riformati di San Pietro in Montorio, a leggere le loro composizioni e uno di loro esclama:”Mi sembra che oggi noi abbiamo ritrovato l’Arcadia”. Di qui l’idea di un’ Accademia i cui membri assumono nomi di pastori, il capo è chiamato “custode”, il luogo delle riunioni “Bosco Parrasio”, Cristina di Svezia è la “Basilissa”e Gesù Cristo il “protettore”.

Il primo custode è Giovanni Mario Crescimbeni e il teorico Gian Vincenzo Gravina. Il programma dell’Arcadia rivolto contro il marinismo e il concettismo, si propone di “esterminare il cattivo gusto” del sentimento e dell’espressione e di prendere come modelli il Petrarca e gli scrittori rinascimentali. La poetica del movimento, tratteggiata da Gian Vincenzo Gravina, “il legislatore”, è una poetica dominata dall’esigenza della riforma. Lui afferma che anche nell’arte si deve mirare alle idee “chiare e distinte”, e considera fonti d’ispirazione il sentimento e la fantasia controllati dalla ragione. Nel suo libro di poetica, Ragion poetica, apparso nel 1709, il Gravina nota che la poesia deve offrire una visione razionalmente analitica della vita e del mondo non più una ingenosa e immaginifica della natura e dell’uomo com’era accaduto con la lirica marinista e seicentista. Promove una poesia di valore etico-civile, animata dal soffio della fantasia, e stima la poesia seicentista “di cattivo gusto”. Ora la lirica deve aspirare ad una forma limpida, elegante, misurata, moderata dal gusto classico.Nella disputa nata tra lui e il Crescimbeni, che era il “custode generale”, cioè il presidente dell’Arcadia, e che promuoveva un classicismo mediato dai modelli di Petrarca e del petrarchismo prevale l’ indirizzo di questi cosicché il Gravina esce dall’Accademia.

L’Arcadia porta avanti fino alla perfezione la tendenza a dissolvere la poesia in musica, già esistente nella lirica seicentesca; riprende la tendenza alla semplicità, all’evidenza e alla chiarezza di gusto europeo cartesiano, mescolandola con il

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ritorno alla tradizione rinascimentale italiana reputata come matrice dei nuovi orientamenti. L’obiettivo strategico è quello dell’egemonia culturale italiana. Per questo si pubblicano numerosi volumi di opere come le Rime degli Arcadi, le Prose degli Arcadi ed anche le Vite degli Arcadi illustri. I suoi limiti stanno nel linguaggio affettato e grazioso, tipico della galanteria, nelle figurazioni troppo astratte e idilliche e nei personaggi superficiali che esibiscono sentimenti solo volutamente, non realmente sinceri. Tutte le donne si chiamano Clori, Filli o Amarilli, e sono pastorelle graziose e belle che si muovono in un paesaggio favoloso e immutato, sempre lo stesso. Sono “personaggi sorpresi in atteggiamenti affettati e sdolcinati, ma calcolati e freddi, prevedibili in tutti i loro gesti, risolti in un calibrato quanto malinconico sospiro e in una genuflessione amorosa esattamente come una figura di danza” (Schippisi). Si tratta quindi di “pastorellerie” che sono presto derise dagli illuministi. Giambatista Zappi (1667-1719), il principale lirico, è chiamato dall’ illuminista Baretti “l’inzuccheratissimo Zappi” per i suoi “smascolinati sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni di amorini”. Ma lui dà proprio in questa grazia e semplicità di linguaggio il migliore esempio della poesia arcadica. Altri noti poeti dell’Arcadia sono: Francesco di Lemene, anche lui molto sensibile alla musicalità del verso, Paolo Rolli, che scrive canzonette piene di grazia come “Lontananza”, Jacopo Vittorelli, autore di poesie anacreontiche. Prima Accademia di carattere nazionale, l’Arcadia guida e determina il gusto letterario nella prima metà del Settecento, e influenza soprattutto la poesia lirica e il melodramma.

Pietro (Trapassi) Metastasio (1698-1782)

Il maggior poeta dell’Arcadia, Pietro Metastasio, nasce a Roma nel 1698 da

una modesta famiglia. Il suo maestro Gravina gli propone di usare lo pseudonimo letterario di Metastasio che è il termine greco del nome italiano. Sempre il Gravina guida il suo ritorno ai classici ma Metastasio studia anche la filosofia cartesiana con le sue idee “chiare e distinte”. È cosciente della necessità di compiere una riforma del melodramma per dargli dignità artistica e severità morale, convinto che il melodramma sia la vera continuazione dell’antica tragedia greca. Rimasto a venti anni privo del suo protettore che gli aveva lasciato una cospicua eredità si trasferisce a Napoli e, nel 1721, su commissione del vicerè compone il testo di una rappresentazione teatrale musicata, gli “Orti esperidi”. È il momento che lo avvia in modo decisivo verso il melodramma. Questo era già diventato un genere di spettacolo molto apprezzato nel Seicento.

La camerata dei Bardi di Firenze aveva definito questo tipo di azione scenica recitata cantando, e Ottavio Rinuccini aveva già composto due melodrammi notevoli “Dafne” e “Euridice”, in cui però il testo aveva un ruolo secondario. Operando la sua riforma Metastasio dà importanza al testo che diventa elemento centrale grazie alla musicalità dei versi, sostituisce alle situazioni inverosimili, agli intrecci complicati e alle psicologie sommarie dei personaggi, una trama lineare e credibile, e approfondisce sentimenti e psicologie.

Il mondo messo in opera è quello ancora della tradizione classica greca e romana. La “favola” è incentrata sul sentimento amoroso, pieno di contrasti e conflitti ma con felice fine. Predominano le situazioni sentimentali e vengono sfrutatti i conflitti tra amore/ dovere e amore/ onore, che fanno la riuscita di molti

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melodrammi, come Olimpiade o Didone abbandonata. Minore successo hanno i melodrammi che puntano sul conflitto eroico.

Il primo melodramma che gode di successo è Didone abbandonata (1724). Altri melodrammi famosi sono: Olimpiade, Demofoonte, Demetrio, Adriano in Siria, La Clemenza di Tito, Achille in Sciro, Attilio Regolo ed altri. Il successo dei suoi melodrammi gli assicurano fama europea e l’assunzione come “poeta Cesareo” alla corte Imperiale di Vienna, dove trascorre il resto della sua vita.

Metastasio interpreta liberamente le unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione, introduce il lieto fine, cambia le passioni violenti della tragedia greca, in patetici lamenti, rappresenta le vicende realistiche quotidiane della commedia in una maniera più decorosa ed elevata, e illustra il concetto di catarsi in maniera melodrammatica.

Un’altra innovazione metastasiana riguarda il linguaggio e la struttura del melodramma che gravita intorno alle “arie”, cioè ai momenti più lirici nei quali si concentrano i desideri interiori, le ansie e le gioie dei personaggi e si dà voce ai pensieri e alle considerazioni/riflessioni dell’autore sulla vita e sul comportamento umano.

Le “arie” sono sequenze che chiudono una scena con melodia autonoma, e diventano così famose da venir stampate separatamente.

L’Illuminismo L’Illuminismo è il grande movimento intelletuale del Settecento, che si

propone di “illuminare” il mondo con l’aiuto della ragione, facendo dileguare “le tenebre” dell’ignoranza e della superstizione ed eliminando i residui barbarici del feudalesimo nella vita sociale, economica e politica.Esso si fonda sulla fiducia nella Ragione,autonoma e unica in grado di comprendere unitariamente tutta la realtà nei suoi fenomeni interni ed esterni.

La conoscenza viene fondata sull’esperienza empirica e su un metodo di ricerca analitico ed induttivo. Si sottopone ad uno spregiudicato riesame critico tutta la storia passata con il fine di far “tabula rasa” dei pregiudizi, ritornando alla condizione naturale dell’uomo.

L’intelletuale illuminista vuol rompere con la tradizione perché è consapevole di dare inizio a una nuova era nella storia dell’umanità, donde l’intransigenza nella rottura col passato.È un intelletuale integrato nella società e impegnato civilmente, non solo creatore di cultura ma anche divulgatore, non tanto uno specialista quanto un poligrafo capace di intervenire con i suoi scritti sui molteplici problemi che interessano l’opinione pubblica molto attiva grazie all’espansione economica, allo sviluppo dell’alfabetizzazione, alla riforma della scuola, al miglioramento tecnico della stampa e all’aumento della sua diffusione. Per la prima volta nella storia l’intelletuale può guadagnarsi la vita grazie al proprio lavoro culturale di pubblicista o di scrittore. Un ruolo importante è svolto dal dispotismo illuminato di certi sovrani. La cultura illuministica penetra in tutta l’Europa stimolando i sovrani al rinnovamento delle strutture economiche e giuridiche dei loro stati per renderle più adeguate alle nuove esigenze produttive e agli interessi della borghesia, attraverso delle riforme che limitano i poteri del clero e della nobiltà feudale.

In Italia l’Illuminismo è favorito dal crollo della dominazione spagnuola, dall’instaurazione del dominio asburgico in Lombardia, di quello dei Borboni a Napoli e a Parma e di quello dei duchi di Lorena in Toscana. A tale quadro storico-

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sociale s’aggiunge anche il clima di tranquilittà dopo la pace di Aquisgrana (1748), come pure, la volontà riformatrice degli imperatori d’Austria, Maria Teresa e Giuseppe II, i quali riordinano la pubblica amministrazione, aboliscono l’Inquisizione e la servitù della gleba, intrapprendono l’alfabetizzazione promuovono la tolleranza religiosa ecc..

I principali centri illuministici italiani si trovano a Milano, a Napoli, a Venezia, a Firenze e in Toscana.

L’Illuminismo europeo si innesta in Italia sulla “nuova scienza” del Seicento ma anche sulla tradizione rinascimentale italiana. Per questo assume certi caratteri specifici: una più stretta interrelazione tra le due culture, quella umanistico-letteraria e quella filosofico-scientifica; minore sviluppo del romanzo; elementi di freno dovuti al frazionamento politico della penisola e ad una borghesia ancora scarsa (l’Italia è rimasta indietro in ciò che riguarda lo sviluppo capitalistico rispetto agli altri stati europei e il movimento riformistico appartiene piùttosto ai sovrani e a limitati gruppi intellettuali d’avanguardia); il grande peso di una lunga e forte tradizione culturale; l’ostacolo costituito dalla chiesa nella realizazione dei punti riformistici più audaci.

Per questo il movimento illuministico italiano investe solo una parte degli stati italiani acquistando caratteristiche diverse da una regione all’altra.

Tra il 1764, l’anno della fondazione dell’Accademia dei Pugni, e il 1790, l’anno della Rivoluzione Francese, l’intellettualità milanese è all’avanguardia in Italia, e Milano diventa il centro più importante dell’Iluminismo italiano.

I principali intellettuali illuministi milanesi sono i fratelli Verri, Pietro e Alessandro. Appartenenti ad una nobile famiglia milanese, si trovano al centro di un gruppo di intellettuali progressisti e pubblicano dal 1764 al1766 il periodico “Il Caffè”, dove viene espresso il loro proposito di armonizzare letteratura e impegno civile.

Pietro Verri (1728 – 1797) è l’autore di un famoso libello Osservazioni sulla tortura (1768), ma pubblicato solo più tardi nel 1804, perché contrario alle opinioni dell’aristocrazia lombarda. È un pamphlet, genere molto gradito agli illuministi, cioè un breve intervento saggistico di natura vivace e polemica, contro quelli ancora favorevoli all’uso della tortura nei procedimenti giudiziari.

Per Pietro Verri la tortura è contraria ai diritti naturali dell’uomo e può portare ad aberrazioni tradendo la logica umana e la giustizia. Per dimostrare le sue idee, rievoca la situazione storica reale degli “untori”, riportando il caso concreto di due “untori” del Seicento, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, i quali furono torturati e condannati a morte nel 1630 sotto l’accusa di avere diffuso la peste in Milano, ungendo le porte delle case. Il Verri considera che l’uso della tortura dovrebbe essere abolito perché altro non fa se non inquinare le prove giudiziare dal momento che gli innocenti confessano colpe non commesse pur di sottrarsi al dolore fisico della tortura.(La tortura fu realmente abolita nel 1740 da Federico II di Prusia, nel 1776 da Maria Teresa d’Austria, e nell’1784 anche in Lombardia).

Nel saggio Pensieri sullo spirito della letteratura illuminista in Italia, apparso sul’ “Caffè”, si afferma la sua concezione sulla letteratura illuministica: una letteratura “di cose non di parole”, legata alla filosofia e alla scienza, strumento per indagare i problemi concreti della società e per esprimere “idee grandi e nobili”.

La rivista “Il Caffè” è reputata “una manifattura dello spirito”,”fabbrica di idee”, scaturite dalla conversazione e dallo scambio di notizie, di un’apertura

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enciclopedica “un’ enciclopedia dell’occasione su moltissime cose su cui si ragiona in tutto il mondo”. Perciò nelle sue pagine trovano posto scritti di memorialistica, di agricoltura, commercio, politica, economia, morale, salute, la problematica della donna, della moda, della vita quotidiana, ecc. La rivista si rivolge ad un pubblico non specialistico con l’intento pedagogico di formare “il cittadino”.

Alessandro Verri (1741-1816), uno dei principali redattori della rivista, si oppone al “Vocabolario della Crusca”, richiedendo la sua abolizione e propugnando per una lingua vivace e inventiva.

Cesare Beccaria (1738-1794), nobile milanese anch’egli, è tra i più notevoli illuministi, impegnato per vent’anni nell’amministrazione austriaca.

È famoso per l’operetta Dei delitti e delle pene (1764), in cui discute sulla legittimità della tortura e della pena di morte. Beccaria, come il Verri, è contrario all’ uso della tortura ed anche alla pena di morte che accetta solo in due casi: quando il colpevole ordisce una rivoluzione contro il governo, fatto considerato pericoloso per la stabilità dello stato, e nel tempo dell’anarchia.Altrimenti la punizione del reo è vista come un processo di recupero del colpevole alla società e perciò dev’essere continua e moderata. Altrimenti la pena di morte è reputata contraria al diritto naturale dell’uomo alla vita ed anche al patto sociale tra lo stato e il cittadino, inefficace e con influenza negativa sulla società: ”un’inutile prodigalità di supplici che non ha mai resi migliori gli uomini”.

Beccaria è anche autore di un libro Elementi di economia politica. Preoccupato della letteratura, poligrafo come la maggior parte degli illuministi, scrive anche Ricerche intorno alla natura dello stile.

In Toscana, il movimento illuminista trova il centro in una società agraria, l’Accademia dei Georgofili”, formata da proprietari terrieri illuminati, moderati sul piano ideologico, collaboratori del Granduca Pietro Leopoldo, preoccupati del rinnovamento delle tecniche agrarie e delle istituzioni. I nomi più noti sono quelli di Pompeo Neri e Giulio Rucellai.

A Napoli il movimento illuminista ha un carattere più dottrinario e teorico, perché coinvolge un ceto ristretto d’intellettuali. Anche se i Borboni, in ispecie Carlo III, mirano ad introdurre delle riforme illuminate, incontrano l’opposizione del clero e della feudalità agraria. Tra gli intellettuali illuministi e il popolo ignorante e analfabeta esiste una frattura che fa sì che le loro opere abbiano principalmente un carattere speculativo. I maggiori rappresentanti sono Antonio Genovesi (1713-1769), con Lezioni di commercio in cui studia l’economia napoletana metendo in risalto i vincoli del feudalesimo, e Ferdinando Galiani (1728-1787) con il trattato Della moneta (1751), il saggio Del dialetto napoletano (1779), ecc.

A Venezia l’Illuminismo è piuttosto una curiosità culturale che un impegno di rinnovamento. Ha un carattere più moderato e più letterario. I principali poligrafi veneziani sono Francesco Algarotti (1712-1764), che fa spessi viaggi in Europa, entra in contatto con l’Illuminismo d’Oltralpe, apprezza soprattutto l’Illuminismo inglese e scrive opere di divulgazione scientifica come ad esempio Newtonianismo per le donne, Epistole, il romanzo Il Congresso di Citera, ecc..

Il secondo poligrafo è Gasparo Gozzi (1713-1786), letterato di mestiere, moderato, preocupato più dei valori stilistici e letterati, autore di un opuscolo Difesa di Dante, in cui difende Dante dalle critiche mosse da Saverio Bettinelli, autore anche dei Sermoni, e delle Favole esopiane, ammirato per la sua elleganza stilistica.

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Giuseppe Parini (1729-1799)

Giuseppe Parini nasce a Bosisio (in Brianzia) nel 1729 e muore a Milano nel

1799. Di origini assai modeste si fa sacerdote non per vocazione ma per bisogno economico. È assunto come precettore nelle case dei Serbelloni e degli Imbonati, ciò che gli offre l’opportunità di conoscere dall’interno la vita della nobiltà lombarda. Acquistata notorietà letteraria ottiene incarichi di rilievo nella “Gazzetta di Milano” e nelle scuole pubbliche. Le sue opere fondamentali sono il poemetto didascalico-satirico Il Giorno e le diciannove Odi.

L’atteggiamento di Parini corrisponde all’indirizzo moderato e riformistico dell’Illuminismo lombardo. Così lui difende il principio dell’uguaglianza e della dignità dell’uomo, critica la vita oziosa dell’aristocrazia e i privilegi di classe ma non in maniera totalmente contestativa bensì volta a recuperare gli uomini migliori.

La sua poetica e la sua arte fondono il rinnovamento tematico, l’impegno morale e civile, e un’educazione letteraria basata sulla classicità. Nel Dialogo sulla poesia Parini afferma la funzione della poesia di dilettare educando, cioè di “giovare assaissimo all’uomo”.

Le prime Odi rispecchiano il suo orientamento arcadico però rapidamente il poeta adatta la sua opera alle esigenze illuministiche del tempo. Le 19 odi sono scritte tra il 1757 e il 1795 e trattano temi di impegno sociale, civile e morale.

Nell’ode La vita rustica (1758), d’influenza arcadica, il Parini canta la pace e la serenità dei campi. Nella Salubrità dell’aria (1769) propone il miglioramento igienico di Milano, conformemente alle norme legislative del tempo. Nell’Innesto del vaiolo promuove la diffusione di questo nuovo remedio contro il morbo del vaiolo. In un’altra ode,Il bisogno (1766), si fa promotore di una riforma del codice penale lombardo che elimini la causa del delitto individuato principalmente nella miseria del popolo. Nell’ode L’educazione (1764) è messa in luce la funzione educativa assegnata alla poesia.

Le odi del secondo periodo creativo sono più riuscite perché meno didascaliche. Esse lasciano intravvedere il profilo morale del Parini, un uomo di elevata dignità e austerità morale, sono più vivamente autobiografiche,nutrite di meditazioni e di affetti famigliari e privati. Il suo messaggio rivolto agli uomini è fondato sul sentimento della dignità dell’uomo, sulla sanità morale, sugli affetti semplici e sinceri, sul culto della bellezza come simbolo dell’armonia. Perciò si è parlato del Neoclassicismo dell’ultimo Parini. Il denominatore comune della lirica del Parini, di cui menzioniamo come titoli La caduta (1585), Il dono (1790), Il messaggio (1793) e soprattutto Alla Musa (1795) (che è il suo testamento letterario), è questo culto del vero, del giusto e del bello.

Il Giorno è un poemetto didascalico in endecasillabi sciolti, di cui la prima parte Il Mattino, esce nel 1763, la seconda parte Il Mezzogiorno, appare nel 1765 mentre le ultime parti Il Vespro e La Notte, continuamente rielaborate non furono mai pubblicate dall’autore.

Il poemetto si propone di presentare una giornata della vita di un nobile lombardo chiamato col nome di “giovin signore”, di cui l’autore finge di essere “il precettor d’amabil rito”. Il tema è scelto per far vedere la vita di ozio e di lusso dell’aristocrazia lombarda caratterizzata dal tedio, dalla noia, dal vuoto spirituale, da una mancanza totale di senso e di ideale, nonché da evasioni maniacali che i nobili vantano come distinzioni rispetto alla “dispregiata plebe”. Si configura così

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il ritratto collettivo di una nobiltà degenerata che mena una vita inutile e presenta tutti i segni dell’imbecilità trionfante.Questa vita vuota di contenuto umano serio è vissuta però con l’arroganza del privilegio e con grottesca serietà. Il razionalismo illuministico e le intenzioni civili affinano il classicismo e il linguaggio è aderente agli oggetti della rappresentazione poetica. Il poemetto s’impernia sull’equilibrio tra la vena satirica e quella ironica. L’ironia è la principale figura retorica e sta nel rovesciamento parodistico della realtà, nell’enfatizzazione “del vacuo, del vano, del piccolo”, nell’uso di un linguaggio magniloquente ed eroico per descrivere le più frivole occupazioni cui dedica il suo prezioso tempo il giovane aristocratico che “da tutti servito a nulla serve”: la scelta tra la tazza di cioccolato e il caffè, le fatiche della toilette, i profumi, i ferri del parrucchiere, i gingilli preferiti, ecc.

A questa vita sfarzosa e futile, il Parini oppone per contrasto il modello di quella sana e laboriosa della “plebe”: il risveglio presto del contadino e del fabbro per andare al loro lavoro, la loro operosità, ed anche i massacri dei conquistadores nell’America del Sud affinché il “giovin signore” posse assaporare il suo caffè.

Il Mattino descrive il tardo risveglio del Giovin Signore, il rappresentato come una specie di manichino senza anima. Segue la piccola colazione con le sue difficili di scelte, poi il rito della vestizione evidentemente attuata dai servitori. S’intrattiene con una piccola corte composta dai maestri di canto, di danza e di francese; poi un altro rituale solenne è quello della pettinatura e dell’incipriatura dei capelli secondo i dettami della moda. Dopo di che parte in carrozza in una corsa sfrenata per le strade della città verso la casa della donna “la pudica d’altrui sposa a te cara” di cui è “il cavalier servente”.Parini critica così la moda del cicisbeismo, che permetteva ad una donna sposata di essere cortegiata da un altro uomo con pieno assentimento del marito.

Il Mezzogiorno presenta il pranzo nella casa della donna, occasione per far le caricature degli invitati e per rilevare le loro conversazioni preziose e sciocche. I “giovani eroi”, tutti nobili, brillanti di vanità e di ridicolaggine, fanno pettegolezzi sugli amori degli altri, mentre il marito sorride bonariamente. Al pranzo si assaggiano cibi prelibati non per bisogno ma per voluttuoso piacere, mentre fuori una turba di mendicanti fiuta gli odori della mensa.

Il Vespro narra la passeggiata del Giovin Signore e della donna in carrozza al corso, punto di ritrovo e d’intrattenimento con la gente aristocratica della città in conversazioni vacue e galanti che durano fino al calar della sera.

La Notte ritrae una scena collettiva, una cena fastuosa offerta da una ricca signora nel suo sontuoso palazzo, colta dall’autore per fare la sfilata di una “folla d’eroi” che si vantano con i loro hobby raffinati: il caffè, far schioccare la frusta, sfilacciare i tappeti ecc.Il poema s’interrompe al momento del gioco.

Polemico e denigratorio, Il Giorno satireggia solo quella parte della nobiltà che fonda la sua esistenza sull’ozio, sull’arroganza e sulla violenza, perciò non si vuol leggere come manifesto antinobiliare quanto piuttosto come progetto dell’educazione nobiliare nello spirito illuminista lombardo.

Carlo Goldoni (1707-1793)

Carlo Goldoni è il creatore del nuovo teatro italiano, un teatro realistico

borghese e popolare. È il maggior commediografo italiano. Nasce a Venezia nel 1707, fa studi giurididci, diventa avvocato ma nonostante ciò si dedica all’attività teatrale e scrive più di 250 opere di cui all’incirca 120 commedie, rinnovando il

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teatro italiano.Nel 1762 si trasferisce in Francia dove muore, nel 1793, in miseria perché in seguito alla rivoluzione francese gli era stata tolta la pensione.

Prima della sua riforma teatrale in Italia era di moda la commedia dell’arte, rappresentata dalle companie italiane in tutta l’Europa, che aveva come punti fondamentali: attori professionisti, l’improvvisazione, le maschere.

Goldoni invece considera che lo scopo principale del teatro è più nobile, è quello di educare il gusto e i costumi degli spettatori, mentre nella commedia dell’arte il canovaccio era spesso una favola mal messa a punto, con contenuti immorali e gli attori si accontentavano spesso di battute oscene, “frizzi” e “lazzi”.

Goldoni rappresenta nel 1738 il Momolo Cortesan in cui per la prima volta la parte del protagonista è scritta. Nel 1743 fa rappresentare La donna di garbo, che è la prima commedia interamente scritta.

Malgrado l’opposizione degli attori costretti a imparare a memeoria un testo scritto, Goldoni porta avanti gradatamente la sua riforma. In questo senso lui afferma di servirsi di due libri dai quali apprende tutto: il “Mondo” e il “Teatro”.

Dal “Mondo” impara la vita reale degli uomini con i loro caratteri, costumi, vizi e virtù, mentre il “Teatro” gli insegna come rappresentare sulla scena i fatti della vita reale, il mondo che lo circonda.

Goldoni diventa così il creatore del nuovo teatro borghese e popolare. I principali tratti caratteristici della sua riforma stanno sostanzialmente nella sostituzione della vecchia commedia dell’arte seicentesca con una nuova commedia tutta scritta, senza maschere, con personaggi psicologicamente definiti. Goldoni passa man mano da una commedia di intrecci e di ambiente ad una commedia di caratteri. Lui cerca sempre di assecondare il gusto del pubblico, fatto esenziale per un autore che scrive “per il Teatro ch’è quanto a dire principalmente pel Popolo”. Cerca di creare anche il nuovo linguaggio del teatro, distinto da quello letterario e lo trova nell’ uso dell’ italiano medio, vicino al parlato, accessibile e comprensibile in tutta l’Italia, “mi sono servito del linguaggio più comune, rispetto all’universale italiano, un linguaggio familiare, naturale e facile”.

Goldoni diventa così uno dei primi autori di teatro che vivono della loro professione ed è perciò costretto a produrre un gran numero di commedie. “Che dira Ella – scrive a Giovanni Lami nel 1758 – di un uomo che scrive tanto? Mi dirà: scrivi meno e scrivi meglio. Ma in Italia chi scrive poco, mangia poco.”

Le tematiche del teatro goldoniano Per Goldoni la commedia diventa un genere “serio” e “medio”, cioè adatto a

dibattere i problemi del mondo borghese. Per questo un primo tema può essere considerato l’incontro/scontro tra

borghesia e nobiltà. In questo scontro il borghese Pantalone è un personaggio positivo, dotato di vitalità e dinamismo; è il mercante veneziano che affronta la realtà sul terreno dell’attività economica e riesce a mantenersi grazie al lavoro e alla prudenza. Perciò il suo principio di vita è quello di un’operosa individualità. Il mercante Pantalone è il primo carattere coerente del teatro goldoniano. Mentre lui afferma la dignità della propria attività e moralità, preoccupato della sua reputazione nell’ambito del proprio ceto e della famiglia, che per Goldoni è la cellula fondamentale della società, il personaggio dell’aristocratico è uniforme e immobile, vive nell’ozio, nel parassitismo. È un nobile decaduto che rispecchia la condizione storica della società veneziana. Così appaiono in antitesi il mercante borghese, che porta vari nomi:Pantalone, Pancrazio, Anselmo, e o nobili oziosi e

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incapaci di affrontare attivamente e laboriosamente il presente, come ad esempio don Flaminio nella commedia, Il cavaliere e la dama.

Quest’antitesi è brillantemente rappresentata nella commedia La locandiera del 1753, in cui Mirandolina dimostra qualità superiori, indipendenza di carattere e libertà di agire, nei confronti dei suoi nobili “avventori” della locanda, che riesce astutamente ma gentilmente fare innamorare di sé: il conte di Albafiorita, il marchese di Forlipopoli e il cavaliere di Ripafratta. Alla fine lei preferisce sposare Fabrizio, che apparteneva al suo ceto sociale.

Dal 1753 al 1759 l’attività teatrale goldoniana segue la rottura con la compania Medebac e il teatro Sant’Angelo e il nuovo contratto con il nobile Vendramin e il teatro San Luca. In questo periodo le tematiche goldoniane si rinnovano acquistando risonanza europea. Tra le sue preoccupazioni si notano:

– il gusto dell’esotismo e del primitivo collegato al tema dell’uguaglianza sulla base del concetto di Natura che si ritrova nelle commedie: La sposa persiana, La peruviana, La bella selvaggia;

– l’analisi della borghesia europea occidentale più avanzata di quella italiana che si rispecchia nelle commedie Il filosofo inglese, e Il medico olandese;

– l’interesse per il mondo corale e plebeo rilevato nella commedia Il Campiello, dove protagonista è tutta la piazzetta;

– la tematica militare che appare in La Guerra. Tra gli anni 1759 e il 1762 si ha un ritorno al mondo mercantile. Il mercante

veneziano fa ritorno nel teatro di Goldoni però come borghese mancato. Goldoni rappresenta ora la crisi dell’interno familiare borghese in ragione della sua chiusura verso l’esterno. Le principali commedie di questa fase teatrale sono: Gli innamorati, I Rusteghi, La casa nova, Sior Todero brontolon e la trilogia della villeggiatura. Il mondo mercantile diventa oggetto di rappresentazione totale. La figura dell’aristocratico è ridotta ad una semplice scomparsa. Sono colti con lucidità i limiti e le contraddizioni del ceto mercantile. La borghesia veneziana appare incapace di porsi come classe egemone, cosicché al mercante sembra non restar altro che chiudersi all’interno della famiglia o rifugiarsi in campagna come facile evasione e vanto della propria ricchezza, come nella trilogia della villeggiatura. (Le smanie della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura)

I borghesi si chiudono in una solitudine sempre più cupa e brontolona, al di fuori della dinamica sociale. Emblematica in questo senso è la commedia I Rusteghi rappresentata nel 1760. I quattro personaggi borghesi appaiono come quattro volti di uno stesso carattere che Goldoni definisce così “il rustego è uomo aspro, zotico, nemico della civiltà, della cultura e del conversare”. I quattro rusteghi: Lunardo, Maurizio, Canciano e Simon, rifiutano il teatro ciò che equivale per Goldoni ad una vera infermità intellettuale, come rifiutano anche il contatto gentile, la conversazione con gli altri e la loro tollerante comprensione. Sono preocupati unicamente del loro lavoro ciò che limita la loro libera umanità “Laorè, laorè. Per farne un complimento tralassar de laorar?”. Il personaggio del mercante borghese diventa assai diverso da quello aperto e cordiale del primo Pantalone. Invece i personaggi femminili, come donna Felice, dimostrano caratteri più liberi e più flessibili di quelli degli uomini. In genere Goldoni crea una tipologia femminile positiva, influenzata forse dalla rivalutazione dalla donna nell’ambito dell’ideologia illuministica.

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Sior Todero brontolon rappresenta il punto estremo nell’involuzione del personaggio del mercante borghese. È un vecchio mercante avaro, prepotente, odioso, completamente chiuso al mondo esterno.

Con Le baruffe chiozzotte (1762) il mondo popolare con la sua vitalità forte, naturale, non cristalizzata e irrigidita entra di nuovo a far parte dal teatro goldoniano. Goldoni crea molte commedie incentrate sulla rappresentazione tra divertita e distaccata della vita del popolo come ad esempio I pettegolezzi delle donne, Le Massere e Il Campiello. Assecondando le esigenze del pubblico, lui rappresenta la dignità di una realtà in cui il popolo veneziano poteva riconoscersi e dalla quale poteva nascere un utile diletto. Dà così un quadro dipinto al naturale della vita del popolo, sulla base di un’esperienza autobiografica.

La trama delle Baruffe chiozzotte è molto esile. Si parte da un pacifico dialogo iniziale che fa nascere due baruffe di gravità crescente, la prima tra le donne, la seconda coinvolgendo anche gli uomini che arrivano alle mani. Solo l’intervento di Isidoro, coadiutore del cancelliere criminale, porta la pace che si conclude con una gran festa pubblica. Proprio questo carattere esile della vicenda permette a Goldoni di costruire la commedia sulla conversazione, sugli incontri e sulle relazioni tra i personaggi. La strada è il luogo privilegiato dell’azione. Appare così l’opposizione tra lo spazio popolare che è uno spazio aperto e lo spazio borghese che è uno spazio chiuso. Sul piano linguistico la differenza del modo di parlare dei personaggi è rappresentata dall’uso del dialetto per le persone del mondo popolare e l’uso dell’italiano per quello aristocratico e ufficiale.

Nel periodo trascorso in Francia Goldoni scrive le sue memorie in francese (Les Mémoires) ed una commedia dal titolo Il burbero benefico (Le bourru bienfaisant).

Temi di verifica:

Bibliografie Rodica Locusteanu, La letteratura italiana nel Rinascimento (Il

Cinquecento), Uranus, Bucureşti, 2004. Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana,

Einaudi Scuola, Milano, 1991. Giuliano Manacorda, Giuseppe Gangemi, Storia della letteratura

italiana, Dal Cinquecento al Settecento, Tascabili Economici Newton, Roma, 1993.

Mario Pazzaglia, Storia della letteratura italiana, Zanichelli, Bologna, 1986.

Le opere degli autori indicati.