La Peste Protagonista nella Letteratura (Anna Rosa d'Ascoli)

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La peste

protagonista in Letteratura

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Indice

0. fonti.....................................................................................................................................................2

1. etimologia parola peste...............................................................................................................3

2. modi di dire legati alla peste.....................................................................................................3

3. presentazione di testi letterari legati alla peste................................................................4

4. La peste nera del 1348 - Teorie sulla peste nel tardo medioevo................................6

5. la peste in Boccaccio e in Manzoni........................................................................................10

0. fonti

1. etimologia parola pestewww.etimo.it

2. modi di dire legati alla pestewww.dizionari.corriere.it

3. presentazione di testi letterari legati alla pestewww.marcopolovr.it

4. La peste nera del 1348 - Teorie sulla peste nel tardo medioevo

www.ilpalio.org

5. la peste in Boccaccio e in Manzoniwww.gpeano.org

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1. etimologia parola peste

péste- dal lat. Pestem – devastare- uccidere. Malattia assai contagiosa e mortifera per estens. Danno, Calamità, Fetore ha per comparativo pèior peggiore e per superlativo pèssimus –pessimo cattivo, crudele. Altri lo connette a PÈRDERE. Deriv. Pestifero; Pestilente, onde Pestilènsa Pestilènssia, da cui Pestilenziale..

2. modi di dire legati alla peste

1. dire peste e corna

• Fig.: parlare malissimo di qualcuno.

2. essere una peste• Fig.: riferito a una persona, essere insopportabile per varie ragioni, quali lo spirito polemico, la litigiosità, la cattiveria e simili. Riferito a un bambino, ne sottolinea l’irrequietezza o la bizzosità. • Altro sign. fig.: essere molto dannoso dal punto di vista sociale o morale, detto in genere di fenomeni negativi di vasta portata come ad esempio la diffusione della droga, o riferito a ideologie osteggiate dalla maggioranza.

Dizionario dei MODI DI DIRE dalla A alla Z (www.dizionari.corriere.it)

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3. presentazione di testi letterari legati alla peste

1.Tucidide e la peste di Atene

Possiamo definire Tucidide come primo autore che descrive la peste nelle sue opere, parlando della morbosa epidemia sviluppatasi ad Atene, portata dai profughi egiziani.

https://it.wikipedia.org/wiki/File:Thucydides_Manuscript.jpg

2. Lucrezio Nell’ultimo libro del “De rerum natura”, il poeta latino Lucrezio parlò, fra tutti gli argomenti, anche della peste di Atene. A parer suo la peste sarebbe arrivata alle porte della città contagiandola, costringendo le persone a rinchiudersi in essa. La descrizione dell’epidemia ateniese è totalmente diversa dalle altre, grazie ad un tentativo di spiegazione scientifica della malattia, escludendo il coinvolgimento delle divinità.

3. Virgilio e la peste nel Norico:

Virgilio narra del doloroso aspetto della piaga e si sofferma sulle atroci sofferenze degli uomini e sul mistero della morte ingiusta.

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4. Boccaccio Boccaccio, nel Decameron,  racconta come la peste cancelli i freni morali e abbatta ogni ordine sociale e civile.

5. Defoe Nella letteratura inglese esiste una famosa opera chiamata “La peste a Londra”, scritta da Defoe, nella quale vengono descritti i primi casi di peste del 1665.

 6. Poe

In chiave simbolica anche ne La maschera della morte rossa” è trattato il tema dell’epidemia; il racconto parla di alcuni giovani che cercano di sfuggire alla peste, ma non ci riescono perché ad una festa mascherata compare la maschera della morte rossa che ucciderà poi uno dei ragazzi. Poe si cimenta poi in un racconto più comico,“Re peste”

7. ArtaudTeorico del teatro viene ricordato per aver pubblicato “Il teatro e il suo doppio”, nel quale è

data un’interpretazione originale e positiva della peste, cioè non viene considerata una vera e propria malattia, ma come un’entità psichica(non provocata da un virus). Artaud nell’opera afferma che: “il teatro, come la peste, scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, e se queste possibilità e forze sono nere, la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita”.

8. Manzoni Ne “I Promessi Sposi”, l’autore parla dello spaventoso evento che ha sconvolto Milano e il ducato.

Anche Petrarca si è inserito nella rosa degli scrittori che hanno descritto le terribili pestilenze. tra i contemporanei, Albert Camus affronta il problema dell’impossibilità di trovare senso e giustificazione all’esistenza umana e al dolore che essa contiene, in un romanzo che egli intitola “La Peste”. A questi non possiamo non aggiungere Calvino “Il cavaliere inesistente”, e “”Esattezze” da “Lezioni americane”     (www.marcopolovr.it)

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4. La peste nera del 1348 - Teorie sulla peste nel tardo medioevo

Il livello di conoscenza dei medici e degli eruditi del XIV secolo circa la causa, gli effetti e la terapia della peste era quanto mai avvilente. Nella loro lotta contro la peste nera i dottori del tardo Medioevo si affidavano alle autorità del mondo antico, come Ippocrate, Galeno e alcuni altri autori della tarda antichità che, sulla causa ed evoluzione delle malattie, seguivano la corrente umoralpatologica. I disturbi alla salute significavano dunque una cattiva mescolanza (discrasìa) dei quattro umori, sangue, flemma, bile gialla e bile nera. Se una prevalenza della bile nera (melaina cholé), fredda e secca, predispone alla melancolia (da qui l’origine della parola), un’eccedenza di sangue, umore caldo-umido, sta a indicare il pericolo di putrefazione degli organi interni, che nella convinzione dei medici dell’antichità e del Medioevo rappresentava il vero processo della peste. Si pensava che questa putrefazione entrasse nell’organismo attraverso l’aria o il cibo. La corruzione dell’aria veniva spiegata con le esalazioni (miasmi) la cui origine e composizione non era però certa. Nello stesso modo dell’aria, alcuni cibi facili alla putrefazione, come ad esempio del pesce andato a male, potevano infettare stomaco e intestino. Un clima afoso e umido, così come i temuti venti del sud, venivano considerati particolarmente pericolosi, addirittura la fonte “classica” di pericolo. Allo stesso modo l’aria al di sopra delle acque stagnanti e degli acquitrini era sospettata di favorire la diffusione dei miasmi. Erano temute anche le esalazioni, in particolar modo il respiro di coloro che già avevano contratto il morbo perché, sulla base della teoria umoralpatologica, ma non da ultimo sulla base dell’esperienza stessa, si ritenevano, a ragione, essere estremamente infettive. Per questa ragione i medici sentivano il polso dei pazienti col viso rivolto all’indietro.

Con interventi di flebotomia essi cercavano inoltre di ridurre la quantità del sangue presumibilmente nocivo e con prolungati clisteri di eliminare dall’organismo i gas prodotti dalla putrefazione o i resti marci del cibo. Nei luoghi climaticamente sfavorevoli e anche nelle stanze dei malati si accendevano costantemente fuochi, cosicché il fumo della legna che bruciava purificasse l’aria. Il viso e le mani venivano disinfettati con acqua e aceto, cui si attribuiva un’azione “pesticida”. Siccome era noto che nelle stanze l’aria calda (e dunque anche l’aria che si sospettava fosse contaminata) sale verso l’alto, gli stessi malati venivano sistemati su di un soppalco, cosicché non dovessero ammorbare l’aria respirata dai familiari e da coloro che prestavano loro le proprie cure. Soltanto il vento freddo proveniente da nord e mai il vento afoso e umido meridionale doveva arrivare nelle stanze dei malati. Questa era l’opinione dei medici.

Le teorie del XIV secolo sulla peste culminarono nel “Paradigma del soffio pestifero” di Gentile da Foligno, medico umbro che essendosi impegnato troppo nella cura dei malati di peste, fu vittima egli stesso del contagio e morì a Perugia nel giugno del 1348. Il 20 marzo del 1345 esalazioni insalubri, furono, secondo Gentile, risucchiate dal mare e dalla terraferma nell’aria, subirono un riscaldamento e furono poi nuovamente gettate sulla terra come “venti corrotti” (aer corruptus). Se un tale soffio pestifero, così diceva la teoria, viene inspirato dall’uomo, vapori velenosi si raccolgono intorno al cuore e ai polmoni, vi si addensano diventando una “massa velenosa”, che infetta questi organi e, attraverso l’aria espirata, può anche contagiare familiari, interlocutori e vicini. Secondo Gentile da Foligno operare una terapia efficace significava “irrobustimento de lo cuore e de li altri organi principali e ne lo stesso tempo lotta contro la putrescenza velenosa impedendone lo sviluppo ne li soggetti malati e lo insorgere ne li soggetti sani”. Facile a dirsi, un po’ più difficile a farsi, coi mezzi a disposizione del tempo.

Unico dato certo era la contagiosità della peste. In questo almeno, i medici dell’epoca capirono subito le proporzioni del disastro. Anche la teoria del soffio pestifero di Gentile riflette in ultima analisi soltanto tesi già sostenute nella medicina del mondo antico. Che le condizioni climatiche, come ad esempio l’aria afosa e umida, favorissero le malattie, era stato riconosciuto già dagli autori del Corpus Hippocraticum, delle opere cioè attribuite in seguito a Ippocrate e databili in un arco di tempo che va dall’VIII secolo a.C. Secondo Galeno anche le fontane e le acque stagnanti, le carogne di animali e i cadaveri umani che in tempo di guerra non venivano subito sepolti possono

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corrompere l’aria. Che in occasione di terremoti si liberasse dal ventre della terra aria pestilenziale, era stato ampiamente confermato.

Effettivamente il 25 gennaio del 1348 si ebbe in Friuli un terribile terremoto, le cui scosse furono avvertite e causarono distruzione persino in Germania e in Italia centrale. Molti cronisti videro in questo terremoto dirette connessioni con la peste che alcuni mesi più tardi investì queste regioni. Il consiglio impartito negli studi sulla peste era chiaro: la fuga dalle zone colpite dalla peste era nell’antichità, come ancora nel XIV secolo, la reazione assolutamente più sensata. Le finestre potevano essere aperte soltanto verso il nord e l’aria respirata, come ad esempio nelle maschere di protezione contro la peste utilizzate dai medici, doveva essere purificata con essenze. Lo sforzo fisico e i rapporti sessuali dovevano essere evitati per non forzare l’inspirazione di miasmi pericolosi. Una dieta studiata per far fronte alla peste sembrava assolutamente sensata per tener lontano dall’organismo sostanze in grado di indurre la putrefazione. Sostanze dall’odore penetrante, tenute davanti al naso rappresentavano il rimedio profilattico più sicuro, così come la famosa triaca, quel miscuglio di sostanze inerti, oppiati, carne di serpente, estratti di vipera, polvere di rospo che veniva celebrato come una panacea.

I comportamenti “edonistici” descritti dal Boccaccio nel Decamerone e da altri autori acquistano, sullo sfondo dei contemporanei trattati sulla peste, un senso positivo. “Ridere, scherzare e festeggiare in compagnia” contribuiva a equilibrare i temperamenti. Il ritiro nella villa di campagna, dove ci si dedicava alla musica e al gioco, per effetto del riposo, rafforzava le capacità di resistenza. Ancora nel 1580 il professore di medicina padovano Mercuriale sottolineava che attraverso la musica, l’ottimismo, la gioia e l’allegria si poteva ottenere “che lo spirito e il corpo lottassero con maggior vigore contro la malattia della peste”. Siegmund Albich (1347-1427), medico personale di re Venceslao di Boemia e professore all’Università di Praga, nel suo “Regime contro la peste” esorta “a non parlare e a non pensare alla peste perché anche solo la paura dell’epidemia, l’immaginarla e il parlarne sono senza dubbio causa nell’uomo dell’insorgere della malattia stessa”.

Va ulteriormente sottolineato: i medici del tardo Medioevo non conoscevano né la causa, né il modo in cui la peste si diffondeva. Nel XIV secolo non esisteva né la possibilità di identificare l’agente patogeno della peste, né la conoscenza teorica per discostarsi dalla medicina classica del tempo. Ma già nel 1348, per arginare l’epidemia, furono presi provvedimenti che suscitano la nostra ammirazione. Le autorità veneziane stabilirono per esempio regole perché nel più breve tempo possibile si provvedesse a sepolture di massa, perché le carogne di animali fossero allontanate e i malati venissero isolati. Sempre a Venezia si introdussero una specie di obbligo di denuncia (anche se una quarantena vera e propria è documentata solo nel 1374 a Reggio Emilia o nel 1377 a Ragusa). Nel 1348 si osservò anche che i conciatori contraevano la malattia più raramente dei fornai e ciò era da attribuirsi effettivamente al potere disinfettante delle sostanze che venivano utilizzate nella concia. Tommaso del Garbo, famoso medico bolognese, consigliava di tenere sempre aperte le finestre delle stanze dei malati perché l’aria fresca nuocerebbe alla peste, opinione questa che in un certo senso si trovava in contrasto con la dottrina. Sacerdoti e notai non dovevano mai avvicinarsi ai moribondi nell’aria soffocante della camera in cui si trovava il malato. Ma questi approcci di pensiero empirico, contrapposto all’autorità inattaccabile degli autori antichi e arabi, rappresentavano al tempo della peste nera ancora l’eccezione.

Tommaso del Garbo fu autore di un Consiglio contro la peste, un nuovo genere letterario che nacque in Europa nel 1348 e presentava strette affinità con i Regimi contro la peste. Nel caso dei Regimi si trattava di disposizioni dietetiche rivolte sia ai medici sia ai profani. Per proteggersi dal contagio, allo stesso modo di Galeno, consigliava pane intinto nel vino e le famose panacee quali la triaca e il mitridato, oltre ai chiodi di garofano il cui profumo, secondo la sua esperienza, possedeva un’azione disinfettante. Appare pragmatico il seguente consiglio impartito ai sacerdoti che dovevano raccogliere la confessione dei moribondi: tutti dovevano uscire dalla stanza, cosicché il malato non fosse costretto a bisbigliare ma potesse al contrario parlare ad alta voce e non fosse dunque necessario per il confessore avvicinarsi a lui. Una volta lasciata la stanza di un malato, il visitatore doveva lavarsi le mani e la bocca con aceto e vino. Erano considerati altresì efficaci cibi dolci, conservati in acqua fresca, mescolati a sostanze stimolanti come melissa e

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zucchero di “ottima qualità”. La dose minima per chi seguiva una profilassi a base di triaca era rappresentata dall’assunzione giornaliera di una quantità di questa sostanza pari alla dimensione di una nocciola.

Nel Consiglio contro la peste di Giovanni Dondi, medico personale del vescovo di Milano, si trovano suggerimenti dietetici e terapeutici. Egli raccomanda il salasso persino sulla testa del malato in modo da ridurre il sangue infetto dell’organismo. L’abluzione del viso e delle mani con acqua di rose e aceto era considerata ovvia. Ancora nel Settecento i medici usavano questo metodo, subito dopo aver visitato i pazienti. Foschie e nebbie dovevano essere evitate così come il vento del sud. Dondi raccomandava di esporsi al mattino presto al fumo di un fuoco beneodorante, ottenuto per esempio bruciando legna di quercia, frassino, olivo o mirto. L’aggiunta di balsamo, incenso o legno di sandalo alla fiamma ne rafforzava l’azione disinfettante. Tutti i cibi dovevano essere aromatizzati con sostanze dai profumi molto forti. La carne di montone castrato, vitello, capra, pernice, fagiano e pollo era ritenuta sicura, mentre il pesce pericoloso. Vino e birra venivano espressamente consigliati, frutta dolce, come ad esempio le pere, facilmente deperibili, doveva invece essere evitata.

Le donne e ancor più “ogni rapporto disonorevole” andavano evitati e in genere tutto ciò che provocava il temuto “surriscaldamento” dell’organismo. Durante il giorno, inoltre, non si doveva dormire, non ci si doveva mai esporre al sole, né stabilirsi in località calde e neppure in quelle umide e bisognava tenersi lontano dai bagni. Anche per il Dondi, che alla fin fine ottenne più successi come costruttore di orologi che come medico della peste (!!!), la fuga tempestiva rappresentava ancora il miglior rimedio profilattico.

Un anonimo padovano (gli scritti sulla peste comparvero dapprima quasi esclusivamente in Italia!), nel suo Consilium databile intorno al 1360, sottolineava che le misure profilattiche dovevano essere adeguate sia alla stagione sia alla posizione geografica. All’autore, esperto di astrologia, sembrava importante che i medicamenti venissero assunti nel momento giusto e che le necessarie misure fossero adottate per tempo: se la minaccia della peste arrivava in primavera era consigliabile fuggire per sottrarsi alla calura estiva ricca di miasmi. Chi non aveva la possibilità di fuga doveva affumicare con regolarità la casa e la zona circostante ad essa e combattere i miasmi della propria abitazione con rose, viole e “tutto ciò che abbia un buon profumo”. Poiché il soffio pestifero (come in seguito ad un terremoto) veniva da fenditure della terra o da laghetti con acqua stagnante, i luoghi situati al piano terra dovevano essere evitati. Che dopo i terremoti si verificassero epidemie pestilenziali era anche dovuto alla rottura più totale della separazione tra uomini e ratti, anche se appare evidente come i confini di questa separazione fossero allora molto labili. Se invece il soffio pestifero veniva dagli strati superiori dell’aria bisognava comportarsi nel modo opposto. Il movimento fisico era sostanzialmente considerato dannoso, perché aumentava il volume d’aria (miasmatica) inalata. Per stimolare la circolazione dovevano essere praticati solo massaggi leggeriIl già citato Consilium di Gentile da Foligno, in assoluto il più vecchio che ci sia pervenuto, era indirizzato ai medici di Genova. Audace appare il consiglio di lasciar levare alte le fiamme nei locali dell’abitazione. Ogni cibo doveva essere imbevuto nel vino. Come sostanze odorose dovevano essere impiegate la canfora nel caso di pasti caldi e la salaginella nel caso di pasti freddi. I cibi acidi erano considerati l’alimento ottimale (“Non vi è alcun dubbio che tutto ciò che è stato reso acido contrasta la putrefazione”). A partire da Gentile, la triaca, così come il salasso e l’isolamento dei malati rappresentarono le basi della terapia contro la peste.

Naturalmente si decantavano anche i metodi non comuni…. Del resto nella sua cronaca sulla peste di Firenze anche il Boccaccio confermava che l’epidemia rappresentò per quei medici che non si servivano di metodi comuni e per i ciarlatani un momento particolarmente favorevole.

I Consigli e i Regimi contro la peste rappresentarono i manuali della “prima ora” e dopo il 1348 furono diligentemente copiati in tutta Europa. I medici si preoccuparono disperatamente di fornire la prova delle loro conoscenze professionali, da molti messe in discussione. Esaminando in modo critico le misure profilattiche e terapeutiche suggerite, soltanto il consiglio di fuggire era sensato. Certamente le pulci (allo stesso modo di molti altri insetti) rifuggivano effettivamente da

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determinate sostanze odorose così come dal calore del fuoco, ma le relative raccomandazioni (senza dubbio basate su esperienze dell’epidemia molto generali e vecchie di secoli) non avrebbero mai potuto fermare un’epidemia di peste scatenatasi in spazi circoscritti e men che meno avrebbero potuto arrestare la peste polmonare. Più efficace era invece un’altra misura: già prima della peste nera numerose epidemie, meno pericolose rispetto alla peste, avevano suggerito l’opportunità di isolare coloro che erano affetti da malattie sconosciute. Che questa cautela fosse sensata anche nel caso della peste lo si notò già dopo pochi giorni. In un’epoca in cui non si conosceva ancora nulla di microscopi e di antibiotici il sapere non poteva spingersi oltre. Non sarebbe tuttavia corretto ignorare che la patologia umorale, pur in tutte le sue deficienze pratiche, rappresentava in sé un sistema di pensiero logico che sembrava spiegare facilmente cause e sintomi di molte malattie.

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5. la peste in Boccaccio e in Manzoni

INTRODUZIONE

Da sempre le grandi epidemie hanno fatto riflettere l’uomo, dapprima da un punto di vista religioso, poi scientifico, quindi metaforico. Per rendersene conto è sufficiente ripercorrere le pagine della letteratura, ad iniziare da quella greca. Il primo testo pervenutoci, testo base della letteratura occidentale, l’ Iliade di Omero, si apre con la grandiosa immagine della peste che colpisce il campo greco. Perché ciò avviene ? Perché gli Achei, giusti vendicatori di un’offesa subita da parte dei Troiani, il rapimento di Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, devono subire una tale punizione? Perché di punizione si tratta, come tutto ciò che inspiegabilmente colpisce l’uomo in quei secoli lontani. L’ interconnessione tra l’umano e il divino è stretta e il mondo umano trova una sua giustificazione in quello ultraterreno e viceversa. Gli uomini subiscono l’ira degli dei, che, a loro volta, subiscono le offese degli uomini. La riconciliazione dipende dall’uomo, che deve “indovinare” la causa del risentimento divino. Gli dei, però, sono suscettibili e capricciosi e non è facile risalire al motivo, che ha scatenato la loro collera, e individuare il modo di placarla. Per questo esistono gli “indovini”, individui privilegiati, in grado di decifrare i segni, con i quali gli dei comunicano, e di indicare i rimedi da adottare per ritornare in armonia con loro: tale è Calcante per gli Achei.

Col passare del tempo però, ci si rende conto, almeno tra gli intellettuali, che forse le cose non stanno veramente così. Gli dei, se esistono, non hanno un’indole vendicativa e molti mali hanno cause naturali, anche se ignote.

La scienza, intesa in senso moderno, sta muovendo i primi passi e ci lascia testimonianza di ciò Celso, autore vissuto nel primo secolo dopo Cristo, di cui ci è pervenuto il De medicina.

Nel Proemio del suo trattato egli ripercorre la storia della medicina sottolineando il fatto che, originariamente, essa si occupava soltanto delle ferite, che venivano curate ferro et medicamentis, in quanto tutte le altre malattie erano considerate di derivazione divina.

Le cose non cambiarono, afferma Celso, finchè venne Asclepiade di Prusa, contemporaneo di Lucrezio ( morì a Roma nel 40 a. C. circa). Egli ( come Lucrezio ) era un atomista e riteneva che ogni malattia nascesse dalla presenza di ostacoli, che impedivano il libero moto degli atomi, di cui ogni corpo era composto. Dal benessere fisico generale dipendeva la possibilità di contrarre o meno malattie. La cura di queste ultime consisteva nel ricreare l’equilibrio iniziale, cioè nella dieta…. Il fanatismo religioso medievale  determinò una battuta d’arresto nel campo della ricerca scientifica. Le grandi epidemie furono di nuovo interpretate come punizioni divine e si cercò di arrestarle ricorrendo a processioni e cerimonie di espiazione.

Boccaccio:

Paolo Diacono (720-799 d. C.), storico longobardo che insegnò alla corte di Carlo Magno, nella sua Historia Longobardorum, descrive la peste che colpì l’Italia negli ultimi anni dell’impero di Giustiniano (527-565 d. C.), sottolineando, significativamente, il senso di desolazione e di morte diffusosi, non solo tra gli uomini, ma nello stesso paesaggio: Si poteva osservare come la natura era stata riportata all’antico silenzio: nessuna voce in campagna, nessun fischio di pastore, nessun pericolo di animale contro il gregge, nessun danno ai volatili domestici. Il grano, passata la stagione, aspettava intatto la falce del mietitore; la vigna, senza foglie, rimaneva carica di uva nonostante l’avvicinarsi dell’inverno… Non restava alcuna traccia dei passanti, non si vedeva nessun assassino e tuttavia gli occhi erano stracolmi della visione di cadaveri.

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Secondo alcuni critici il passo dell’autore longobardo costituì, con ogni probabilità, un modello per Boccaccio. Quest’ultimo ci offre un dettagliato resoconto della peste che, incominciata in Asia alcuni anni prima (1346), fu portata in Sicilia da navi provenienti dalla Siria e dilagò in Italia, raggiungendo Firenze nell’aprile del 1348: E in quella non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazione della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. Alla descrizione quasi scientifica dei bubboni e delle macchie della peste fa seguito l’osservazione delle reazioni popolari e del venir meno di ogni forma di solidarietà e di civile convivenza. Lo schema letterario, cioè, si ripete simile a se stesso ma con maggior ampiezza e ricchezza di particolari. Singolari, inoltre, risultano essere alcuni accenni, che sembrano voler sollecitare il lettore ad una lettura anche metaforica dei fatti: la peste materiale non conosce rimedi, ma la peste” morale”, che ne consegue e che può avere nel tempo effetti ben più devastanti, sì. Anche nella disperazione l’uomo deve ricordare di essere uomo, mantenere la propria integrità e rettitudine. L’Introduzione al Decameron si apre con un’indicazione particolare: Boccaccio parlerà della mortifera pestilenza, la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata… . ” Giusta ira di Dio” dunque, eco del fanatismo religioso di un Medioevo che sta per concludersi e che è stato ricostruito al meglio dalle immagini del film di Ingmar Bergman Il settimo sigillo: l’Apocalisse come testo guida, la vita come espiazione, il corpo come strumento di mortificazione, la peste ed ogni male come prova della presenza divina. Boccaccio, però, non insiste più di tanto e cerca di cogliere il più obiettivamente possibile il diverso comportamento umano: E erano alcuni , li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere… Altri , in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando in torno e sollazzando e il sodisfare d’ ogni cosa l’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male… Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non stringendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente… Alcuni erano di più crudel sentimento…dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la loro città, le proprie case…quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero… .

Tra il 1348 e il 1749, periodo in cui la peste scomparirà definitivamente dall’Europa occidentale, abbiamo testimonianza di focolai di peste presenti in Europa in modo ricorrente ma non paragonabili per diffusione alle epidemie sopra citate. Fra il 1349 e il 1537 il contagio si diffonde in Italia in aree diverse più o meno ogni due anni. Nel corso del 1400 Napoli è colpita da nove attacchi epidemici con intervalli più ravvicinati nella seconda metà del secolo (1478-1481-1493-1495-1497) mentre Milano è colpita diciotto volte durante il secolo XVI, mediamente ogni due anni fino al 1528 e poi ogni quattro fino al 1550. Nel 1600, invece, assistiamo alla presenza di contagi più violenti e più distanziati nel tempo, culminanti nei due episodi del 1630 e del 1665. Dopo circa un secolo da quest’ultima data, si registrerà un’ultima epidemia di peste nel 1749 a Messina e a Reggio Calabria.

Manzoni

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In letteratura troviamo abbondantemente documentata la peste del 1630 nelle pagine de I Promessi Sposi e della Storia della colonna infame di A. Manzoni e in un breve trattato del cardinale Federico Borromeo, il De pestilentia, fonte segreta del Manzoni stesso. Nel De pestilentia l’autore dedica un capitolo all’origine della peste secondo le capacità umane di previsione. In esso, non mettendo in dubbio che la peste sia anche un’arma dell’ira divina… in base a prove naturali e a quanto affermano pure i sacri Dottori, indaga anche quelle cause della peste che derivano dalla natura, dalla disposizione delle cose e dalla condizione umana: in primo luogo la carestia sorta precedentemente a causa della sterilità della terra e aggravata da atti gravi a dirsi commessi dalla eccessiva libertà militare e dalle bande. Conseguenza di ciò fu lo sfinimento non solo del corpo ma anche dell’animo per cui tale male non era tenuto in alcun conto da persone che desideravano per lo più la morte, e morivano lietamente per non tormentarsi ancora pascolando nei prati e addentando le erbe. Mancò quindi la determinazione nel contrastare la diffusione del male al suo primo insorgere. Si aggiunse poi il fatto che penetrò profondamente negli animi di molti l’opinione che ciò accadesse per opera di alcuni Principi, i quali, per poter realizzare i loro progetti, spargevano questi veleni e infettavano la popolazione. E poiché codeste opinioni risultano abbastanza plausibili tra il volgo e sono accolte con animi creduli, invece di combattere la peste gli animi furono distolti a indagare chi mai fosse stato il macchinatore e l’artefice di una frode così grave. Emergono così le figure degli untori, che compariranno anche nelle opere manzoniane, alcuni dei quali, secondo l’opinione pubblica, confessarono tra le torture di essere stati stipendiati da un grande Principe per quel servizio e quel compito di ungere. Tra il volgo si diffuse, inoltre, la diceria che gli untori mescolassero agli unguenti anche accordi pattuiti coi Demoni, e che gli stessi unguenti risultassero composti di veleni oltre al veleno vero e proprio della peste. E F. Borromeo conclude: Che tutto ciò sia potuto accadere, facilmente sono portato a crederlo; infatti sia i tossici sia le pozioni magiche sono in grado di annientare la vita e nota è la natura della peste. Il trattatello prosegue con una rassegna di casi prodigiosi e con l’analisi della condizione di Milano nel periodo di maggior diffusione del contagio, cioè tra luglio e agosto. Carri carichi di cadaveri percorrevano le strade e camminando a caso … molti cadaveri cadevano; e i corpi putrefatti di costoro emanavano tali fetori, che gli abitanti delle case vicine erano costretti a uscire e a portarli via. Non si vedevano persone in giro se non becchini e ladri che, per avidità di denaro, sfidavano il male, saccheggiando le case dei morti. L’autore non tralascia di sottolineare i pubblici interventi: assunzione di addetti ai lazzaretti, di addetti alle pompe funebri, di scavatori di fosse, di amministratori, di banditori, di guardie e di sorveglianti dei carri. E aggiunge: Ma un altro fatto ancor più ammirevole e straordinario fu osservato, che cioè in mezzo a una folla così vasta di morenti né in città né entro i lazzaretti un solo individuo decedette senza i sacramenti della Chiesa. Di tali notizie e di altri documenti si servì A. Manzoni per offrire al lettore un quadro completo e realistico della peste di Milano nei cap. XXXI e XXXII de I Promessi Sposi. In essi egli dice espressamente che il suo fine non è soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale sono venuti a trovarsi i personaggi, ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto … un tratto di storia patria più famoso che conosciuto. Ci troviamo cioè di fronte ad una ricostruzione obbiettiva e completa del diffondersi dell’epidemia nel milanese, delle reazioni del popolo e delle autorità civili ed ecclesiastiche. Con esplicito riferimento alle fonti, l’autore non manca di registrare anche le superstizioni, le dicerie, i fanatismi sviluppatisi in quel momento terribile, in cui la popolazione della città fu ridotta di circa tre quarti. E’ possibile così ripercorrere anche cronologicamente gli avvenimenti.

20 ottobre 1629        relazione del protofisico Settala al tribunale di sanità 30 ottobre 1629    il tribunale, in seguito a sinistre notizie, dispone le bullette per chiuder fuori della Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato 14 novembre 1629 i delegati, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d’esporgli lo stato delle cose. V’andarono, e riportarono: … i pensieri della guerra esser più pressanti … 18 novembre 1629   emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze

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23 novembre 1629   fu stesa quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre 29 novembre 1629   pubblicazione della grida per le bullette 22 ottobre  o 22 novembre  o 29 novembre 1629   un soldato porta il contagio in Milano primi mesi del 1630    la peste andò covando e serpendo lentamente 30 marzo 1630        i cappuccini assumono l’organizzazione del lazzaretto e il presidente della Sanità … convocati i serventi e gl’impiegati d’ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità 17 maggio 1630      esplode la prima furia popolare contro gli untori dopo che da alcuni era parso di vedere … persone in duomo andare ungendo un assito … 18 maggio 1630      In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne … . La città già agitata ne fu sottosopra. 21 maggio 1630      grida contro gli ignoti che hanno scatenato il panico 22 maggio 1630     vengono inviati due decurioni al governatore per esporgli la situazione e qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il governatore trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer maggio 1630           i decurioni decidono di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di San Carlo - il cardinale rifiuta 11 maggio 1630       … la processione uscì, sull’alba, dal duomo 12 giugno 1630        … le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima 4 luglio 1630           … la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento luglio – agosto 1630     periodo culminante dell’epidemia

Manzoni conclude il suo excursus dicendo che, data la quantità di dati e di testimonianze in suo possesso, relativi alla vicenda degli untori, gli è parso che la storia potesse esser materia d’un nuovo lavoro: la Storia della colonna infame. Quest’opera, pubblicata in appendice all’edizione definitiva dei Promessi Sposi nel 1842, esamina gli atti del processo, tenuto a Milano nel 1630, contro presunti untori. E’ evidente in essa la condanna della malafede dei magistrati che si resero responsabili di fatti iniqui: gli imputati furono torturati, le loro case abbattute e, sulle rovine di queste, fu posta una colonna con i nomi dei “colpevoli”, a loro perenne infamia.

PAOLO DIACONO: HISTORIA LONGOBARDORUM, II, 4

In questo periodo in Liguria si sviluppò una terribile peste. Improvvisamente comparvero alcuni indizi sulle case, sulle porte, sulle suppellettili e sui vestiti che, se fosse stato possibile nascondere, si notavano in misura sempre maggiore. Verso la fine dell’anno cominciarono ad apparire nell’inguine delle persone, o in altri posti molto delicati, ghiandole piccole come noci o datteri, cui immediatamente seguivano altissime febbri con grande arsura al punto che il malato in tre giorni moriva. Se superava questo periodo, aveva molte possibilità di sopravvivenza. Non si vedeva altro che lutti e lacrime. Appena si spargeva la notizia ( di un caso di peste ), la gente fuggiva per evitare la morte e abbandonava le case deserte, lasciandovi solo i cani. Le pecore erano abbandonate a se stesse, senza pastori. Mentre prima le ville e gli accampamenti erano pieni di soldati, si sarebbe potuto vedere il giorno seguente tutti questi luoghi completamente abbandonati e deserti. I figli fuggivano lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; d’altra parte i genitori abbandonavano i figli febbricitanti senza alcuna pietà. Se qualcuno, mosso da compassione, voleva seppellire qualche parente, restava egli stesso insepolto; e se moriva mentre faceva i funerali, nessuno gli tributava il mesto rito. Si poteva osservare come la natura era stata riportata all’antico silenzio: nessuna voce in campagna, nessun fischio di pastore, nessun pericolo di animale contro il gregge, nessun danno ai volatili domestici. Il grano, passata la stagione, aspettava intatto la falce del mietitore; la vigna, senza foglie, rimaneva carica di uva nonostante l’avvicinarsi dell’inverno. La tromba dei belligeranti risuonava di notte e di giorno e si sentiva da molte persone come un mormorio di un esercito. Non restava alcuna traccia dei passanti, non si

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vedeva nessun assassino e tuttavia gli occhi erano stracolmi della visione di cadaveri. I pascoli venivano adattati a cimiteri e le abitazioni erano diventate tane di animali. E questi terribili eventi si verificarono a Roma e in Italia fino ai confini degli Alamanni e dei Bavari.

DECAMERON: INTRODUZIONE ALLA I GIORNATA … qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali o per le braccia o per le cosce, e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna pareva valesse o facesse profitto: anzi, o che la natura del malore nol Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femmine parimente o nell’inguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcune meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire, e da questo appresso s’incominciò la patisse, o che la ignoranza de’ medicanti  (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini, senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e, per conseguente, debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra l’terzo giorno dalla apparizione de’ sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagl’infermi di quella, per lo comunicare insieme, s’avventava a’ sani, non altrimenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: chè non solamente il parlare e l’usare con gl’ infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator trasportare. Maravigliosa cosa è a udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna persona udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno all’ altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse, ma quello intra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’ altre volte, un dì, così fatta esperienza, che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via pubblica e abbattendosi ad essi due porci, e quegli, secondo il loro costume, prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra gli mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così facendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il vivere moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità dovesse molto a così fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro

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separati viveano, in quelle case ricogliendosi e rinchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, delicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno, o volere di fuori, di morte e d’infermi, alcuna novella sentire, con suoni e con quelli piaceri che aver potevano si dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando e il soddisfare d’ogni cosa allo appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi essere medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quell’altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’ altrui case facendo, solamente che cose vi sentissero che loro venissero a grado o in piacere. E ciò potevan fare di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono: di che le più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare: per la qual cosa era a ciascuno licito quanto a grado gli era d’adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non stringendosi nelle vivande quanto i primi, né nel bere e nell’ altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano, e senza rinchiudersi andavano attorno portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’ aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niun’ altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona, come il fuggire loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere, li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi così variamente oppinati non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto langiueno. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’ altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’ altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici ( e di questi fur pochi ), o l’avarizia de’ serventi, li quali, da grossi salari e sconvenevoli tratti, servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini e femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate e di riguardare quando morieno; e servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdevano. E da questo essere abbandonati gl’infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici, e avere scarsità di serventi, discorse un uso quasi davanti mai non udito: che niuna quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’ avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse, o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del suo corpo aprire non altrimenti che ad una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse: il che, in quelle che ne guarirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati, campati sarieno: di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine di quelli che di dì e di notte morieno, che uno stupore era ad udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose assai contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi.

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Era usanza, sì come ancor oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con quelle che più gli appartenevano piangevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato, ed egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pistolenza, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono, e altre nuove in loro luogo ne sopravvennero. Per ciò che, non solamente senza avere molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’erano di quelli che di questa vita senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’ usavano per lo più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte posposta la donnesca pietà, per la salute di loro avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de’ quali fosser più che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa accompagnati; li quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una maniera di beccamorti sopravvenuti di minuta gente, che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara, e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto, ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o sei chierici con poco lume e tal fiata senza alcuno: li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura trovavano più tosto il mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno: per ciò che essi, il più da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né serviti né atati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione tutti morivano. E assai n’erano che nella strada pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de’ lor corpi corrotti, che altramenti, facevano a’ vicini sentire sé esser morti: e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il più da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse che da carità la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per se medesimi e con l’aiuto di alcuni portatori, quando averne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ già passati, e quegli davanti agli loro usci ponevano, dove, la mattina, spezialmente, n’avrebbe potuti vedere senza numero chi fosse attorno andato; e quindi fatto venir bare ( e tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna tavola ne ponieno ), né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e ‘l marito, gli due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quattro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella; e, dove un morto credevano avere i preti a seppellire, n’ aveano sei o otto, e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati, anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramente si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre […]. E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d’alcuna cosa risparmiò il circustante contado; nel quale, lasciando star le castella, che simili erano nella lor piccolezza alla città, per le sparte ville e per gli campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che addivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli, e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per gli campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte, ma pur segate, come meglio piaceva loro se n’andavano. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case, senza alcuno correggimento di pastore, si tornavano satolli. Che più si può dire, lasciando stare il contado e alla città ritornando, se non che tanta e tal fu la crudeltà del Cielo, e forse in parte quella degli uomini, che in fra ‘ marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’ aveano i sani, oltre a cento milia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti? che, forse, anzi

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l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti. O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri, per addietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante, rimaser vòti! O quante memorabili schiatte, quante amplissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ippocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ loro parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’ altro mondo cenarono con li loro passati!

FEDERICO BORROMEO: DE PESTILENTIA L’ORIGINE DELLA PESTE SECONDO LE CAPACITA’ UMANE DI PREVISIONE

Questo fenomeno morboso e questa gravissima strage possono aver avuto varie cause, che esamineremo ordinatamente. Infatti anche Omero nel riferire le cause della peste dispiegò la forza della sua intelligenza e della sua saggezza laddove, mescolando realtà e favole, cantò che Apollo aveva scagliate molte frecce. E tale era l’immagine del morbo. Che la peste sia anche un’arma dell’ira divina non solo è noto in base a prove naturali, ma lo affermano pure i sacri Dottori. Morì per tale contagio un mercante straricco, lo stesso che due giorni prima di spegnersi disse di non aver nessuna paura, eccetto che da parte del proprio barbiere: licenzia perciò il barbiere e ne prende a servizio un altro e lo mantiene in casa tra tutti gli altri servi: costui era malato di peste; così mercante e barbiere morirono insieme. Inoltre è stato notato, non senza meraviglia di molti, che raramente la peste contagiava un soldato. Eppure furono dei soldati a introdurre tale male, ma pochi di loro nel frattempo perirono di questo morbo e quasi la peste non toccò le truppe germaniche causa prima del contagio. Inoltre il nostro esercito di stanza nelle regioni ai piedi dei monti riceve quotidianamente rifornimento e annona da questa città e provincia, eppure esso rimane immune, il che potrebbe costituire la prova che la peste è un’arma divina, che colpisce in profondità e occultamente quanto è destinato. Del resto, se oltre ai misteri del giudizio divino volessimo cercare alcune cause per cui in limiti naturali accade che la peste quasi risparmi i soldati, tra le altre si potrebbe indicare questa: che i corpi dei soldati irrobustiti nelle fatiche e resi sempre più forti risentono meno delle durezze del Cielo. Inoltre, essi raramente abitano ammassati dentro una casa, cambiano spesso i luoghi, alimentandosi per lo più tra i campi, e io ho chiaramente sentito un comandante dell’esercito germanico il quale affermava che non trovavano contro la peste nessun rimedio più efficace che il trasferire in altre sedi quella parte dell’esercito che già era stata infettata, e subito dopo in altre ancora. Infatti egli diceva che grazie a quel mutamento venivano spezzati e dissolti, per così dire, il filo e la trama della malattia stessa; così come anche nel cambiamento di luoghi e tempi si rompe il corso delle congiure e ne vengono dissipati i piani. Trovandosi una gran folla distribuita nei terreni del lazzaretto, piombò addosso improvvisamente una tale piena di acqua che sembrava che a stento qualcuno potesse mettersi in salvo; eppure non risulta che uno solo fra tante migliaia sia perito in tale occasione. Gli stessi perirono poi quasi tutti di peste, poiché appunto così voleva Dio, nella cui mano e nel cui potere sono non solo la vita e la morte degli uomini, ma anche il modo e il genere di morte, o di vita. Comunque, per quanto attiene a quelle cause della peste che derivano dalla natura, dalla disposizione delle cose e dalla condizione umana, si può senza dubbio affermare che la carestia che precedette il morbo in gran parte fu causa della peste stessa, quasi che la consunzione sopravvenendo dopo la carestia trovasse i corpi degli uomini indeboliti, in quanto le forze erano state distrutte, e resi quasi esangui, ed anche perché gli animi erano costernati e afflitti e pressoché ridotti alla disperazione, e da questa schiacciati e oppressi i poveri disprezzavano i poteri, i magistrati e persino la morte. Molti di loro dicevano che era meglio morire una volta per tutte piuttosto che soffrire a lungo ed essere lentamente consumati. Più o meno, tra la carestia e la peste intercorse lo spazio di un anno e appena terminata quella successe questa. […] La carestia era precedentemente sorta a causa della sterilità della terra, quando andò delusa la speranza dell’anno e furono negate le messi. Inoltre dalla eccessiva libertà militare e dalle bande furono commessi atti gravi a dirsi, poiché, dissolta quasi ogni disciplina, quella barbarie incrudeliva secondo il suo costume e non potrei dire facilmente di chi in particolare sia

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stata tale colpa. Io mi limiterò a riferire quanto accadde a Milano, in modo che chiunque possa da ciò dedurre quanti fatti simili e anche più atroci siano potuti accadere nelle campagne, dove evidentemente vi era maggiore licenza e meno possibilità di organizzare i soccorsi. Nell’anno 1629 sulla pubblica via fu visto un giovane di aspetto e portamento nobile, consumato dalla fame e dalla malattia, incapace di starsene in piedi, appoggiato perciò in qualche modo a un muro, dopo essersi alzato a fatica da uno strame e da alcune coperte. Urlava costui per il fatto che volendo andarsene e portare con sé le coperte, temeva che non appena si fosse chinato, gli sarebbero mancate le forze per rialzarsi. Aveva ben presente con quanta fatica si fosse prima levato e non voleva lasciare quello strame che costituiva la sua ricchezza e il suo letto. Questo egli raccontò in tali termini a un giovane che, provando pietà per un caso del genere, agì con spirito di bontà e volle conoscere la causa del suo dolore. Dirà qualcuno: dunque non vi era a Milano alcun pensiero di mantenere gli indigenti? C’era senz’altro, anzi con generosa larghezza molti donavano sussidi; ma poiché affluivano in città da ogni dove turbe di affamati, divenne tanto grande la folla che tutti non potevano essere nutriti e mantenuti in nessun modo. Ormai gli ospizi, i pii alberghi e i ricoveri erano pieni di poveri: e non se ne potevano accogliere né accettare di più, e giungevano talmente avviliti sia dalle offese dei soldati, sia dalla sterilità della terra, che non riuscivano più a resistere. S’eran nutriti di cortecce d’alberi, e una porzione di crusca per loro era simile a un cibo squisitissimo. In città peraltro ci fu sì e no uno che si potesse dire fosse stato consumato dalla sola carestia. Per il resto erano stati a tal punto indeboliti e consunti sia dalla violenza dei soldati che strappavano loro il pane di bocca sia, come ho detto, da tutte le altre disgrazie che, quando poi furono giunti in città, non riuscivano a mangiare e a digerire i bocconi che venivano dati loro come cibo. Poiché la peste aveva colpito corpi e animi così estenuati, tale male non era tenuto in alcun conto da persone che desideravano per lo più la morte, e morivano lietamente per non tormentarsi ancora pascolando nei prati e addentando le erbe. E questi furono casi visti in grandissimo numero. 3 Poiché tanto si diffondeva e aumentava la peste, penetrò profondamente negli animi l’opinione che ciò accadesse per opera di alcuni Principi, i quali, per poter realizzare i loro progetti, spargevano questi veleni e infettavano la popolazione. E poiché queste opinioni risultano abbastanza plausibili tra il volgo e sono accolte con animi creduli, di per sé tale fatto fu di grave danno alla situazione generale. Infatti, mentre sarebbe stato meglio che si ponesse ogni cura nel respingere e scacciare la peste, gli animi furono distolti a indagare chi mai fosse stato il macchinatore e l’artefice di una frode così grave. Entro certi limiti io cerco di sapere che esito abbia avuto tale inchiesta, ma non indico che cosa io ritengo debba essere affermato come vero e che cosa come falso. Ma a me appunto sembra più probabile che non ci siano stati Principi complici di questa colpa e che non siano derivati dalle loro decisioni questi venefici degli unguenti. […] Si era sparsa la voce che alcuni imputati tra le torture avessero confessato di essere stati stipendiati da un grande Principe per quel servizio e quel compito di ungere. Tuttavia, quando i giudici indagando e interrogando cercavano di sapere quale mai dei Principi fosse quello, non si poté cavarlo fuori. Ma forse il Demonio si fece beffe avverso le apparenze e furono permesse alcune cose del genere di cui tratteremo in seguito, e ad inganni di questo tipo sono particolarmente esposti gli ingegni di coloro che sono detti alchimisti e che cercano tesori e amano praticare attività del genere. Io ritengo che l’origine degli unguenti, dei veneficii e della peste stessa sia partita da una delle seguenti tre cause. La peste di per sé appunto poté aver origine dall’incredulità del popolo e dalla preoccupazione di conservare gabelle e dazi che avrebbero inevitabilmente interrotto i pubblici emolumenti, se si fosse sparsa la voce che a Milano c’era la peste. Ma, dopo che il male aveva cominciato a serpeggiare e a diffondersi più ampiamente, si ebbe un vivace contrasto tra i Magistrati e vi erano molti i quali insistevano che questa non era peste, ma qualche altro genere di male. Tre furono le colpe o gli errori di coloro che amministravano lo Stato in questa vicenda. Infatti da una parte non adottarono rimedi per tempo contro il male, dall’altra lo stesso tempo che si sarebbe dovuto dedicare ai rimedi lo persero cercando in qualche modo di scoprire chi fossero mai gli untori di unguenti. I loro animi erano occupati dal sospetto che fosse stata organizzata una congiura per impadronirsi della città e trasferirne il potere, cosa che io ho sempre ritenuta completamente priva di fondamento. Ciò che si sarebbe dovuto procurare fin dall’inizio o evitare,

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non vollero né procurarlo né evitarlo. E, per quanto il problema fosse già stato affrontato in discussioni e riunioni, tuttavia discussioni e riunioni furono prive di esito. Avrebbero dovuto inviare fuori città non solo quelli che la peste avesse già infettato completamente, ma anche quelli che avesse indicato anche un minimo sospetto di tale male. Avrebbero dovuto far costruire ricoveri prima che giungesse la necessità stessa e l’occasione di servirsi dei ricoveri, e tale ritardo fece sì che la peste di un uomo solo ne contaminasse dieci e che dieci ne contaminassero cento. Ma dacché sempre più intensamente aveva cominciato a serpeggiare e ad aumentare il male, affinché non scomparisse la classe intera degli artigiani, i Capi e i Rettori della città, compiuta una scelta di artigiani, avrebbero dovuto mandare i Maestri di ogni attività e tutti i migliori nel proprio ramo in luoghi salubri e mantenerli ivi a spese pubbliche finché ci fosse stata la peste in città. E non sarebbe stato un impegno di così grande spesa mantenere trecento operai, quale era stato press’a poco il loro numero. Questi in seguito, conservati salvi e incolumi, sarebbero tornati in città e sarebbe stato leggero il danno in tale campo se fossero morti i giovani garzoni e gli aiutanti di infimo conto delle officine, essendo ovviamente facile la sostituzione di tale gente e facile il ritorno agli antichi opifici, affinché non scomparissero i prodotti commerciali come di fatto accadde. Noi nei primi tempi della peste avevamo esaminato quali in tutto il clero fossero i sacerdoti più validi e migliori e, purché non fossero tenuti occupati da cura d’anime o da impegni del genere, li mandammo fuori città. In tal modo grazie a noi, furono salvati, eccetto ripeto i curatori d’anime che coraggiosamente consacrarono la loro vita alla difesa del gregge e morirono nell’adempimento del loro dovere. Del resto non si sarebbe dovuto agire altrimenti. Riferisce Tucidide che a causa di quella feroce e terribile peste di Atene, che egli stesso descrive, perirono tutti gli uomini più eminenti e più forti, e individua anche la causa di tale fatto. LE ARTI DI SPARGERE LA PESTE E L’ORIGINE DI TALI ARTI Ma non appena il contagio aveva incominciato a infierire in città, si originarono un grave sospetto e gravi terrori che esistessero degli uomini perduti che ungevano e avvelenavano tutti i luoghi e i corpi stessi, diffondendo in tal modo la peste. Sopra tale questione sono state fatte molte affermazioni e supposizioni e ci furono alcuni che ritenevano la faccenda essere completamente falsa e inventata. Del resto sempre il falso si mescola al vero, cosicché la voce popolare e la fama inventarono molti fatti sopra una faccenda di tal genere. Anzitutto circolava la diffusa convinzione che per portare la peste e la morte bastasse toccare appena con  tale unguento l’abito a qualcuno, e che fossero stati portati via da questo veleno molti che invece era stata la peste stessa a distruggere. Ciò appunto accadeva per una certa abitudine degli uomini a trasferire le proprie colpe su cause esterne e, quasi cercando una scusa alla propria negligenza, dicevano non di essersi appestati per un contatto o rapporto imprudente, ma che era stato teso loro un inganno per mezzo di veleni. Come a maghi e avvelenatori i demoni fanno molte promesse ma non le mantengono, così questi untori credettero a molte menzogne, come se potessero essi stessi restare immuni dal male e inattaccabili dalla peste e insieme potessero farsi assassini di chiunque volessero. Una donnetta affermò che erano caduti di sua propria mano tremila uomini; un’altra affermò di essere stata assassina di quattromila. Dicevano peraltro che questi unguenti erano composti e confezionati in molti luoghi e che le vie dell’inganno erano state parecchie; certo alcune di queste arti ingannevoli le ammettiamo, altre invece riteniamo siano state completamente inventate. Ci furono alcuni che, ungendo i libelli di supplica, si studiarono di infettare di marcia coloro ai quali venivano porti i libelli. Ci furono alcuni che cospargevano di polvere avvelenata la terra o i corpi degli uomini, oppure i frutti e tutte le altre merci che mettevano in vendita per le varie necessità della vita. Altri, dividendo piccoli bocconi unti, andavano in giro per le campagne, e in tal modo contaminavano la gente semplice e bisognosa. Altri distribuivano dolci e biscotti unti e infettati di veleno, attraendo con la dolcezza di tale esca un bambino e qualche bambina, a seconda di come era risultato loro opportuno. Parimenti unsero paglie e spighe affinché le contadine assoldate per mietere le messi durante il lavoro contraessero la peste. Unsero pareti, usci di case, battenti di porte cittadine e angoli e là dove non potevano arrivare cercavano di far giungere il veleno per mezzo di una pertica o di un mantice. Unsero anche delle monete e le diedero ai poveri fingendo di fare carità. E

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fu scoperto chi ungeva con la medesima marcia le vasche dell’acqua benedetta. Avendo una signora ordinato di  distribuire ai poveri delle porzioni di riso cotto, il servo incaricato del compito infettava di unguento il cibo e fu colto in tale delitto. [¼] Benché questa sia la situazione, benché tanto le inchieste eseguite quanto i supplizi dei colpevoli, tanto l’atrocità della peste stessa quanto la maggior parte degli altri fatti non permettano di dubitare che ci sia stato inganno umano e veneficio, ci furono alcuni che negavano integralmente frode e veneficio. Ciò è facilmente confutato proprio da questo fatto, che cioè è accertato come moltissimi, sia di coloro che ungevano sia di coloro che erano unti con questo veleno, perirono. C’erano stati anche alcuni popolani increduli e ostinati a tal punto che chiamavano col nome di martiri coloro che venivano puniti ingiustamente. Peraltro costoro non solo furono pochi, ma venivano anche criticati assai severamente nei discorsi di persone più sagge.

7 LO STATO E L’ASPETTO DELLA CITTA’ AL TEMPO DELLA PESTE Ora comincerò a descrivere brevemente quali fossero lo stato e l’aspetto della città allorquando infuriava al suo culmine la peste. Questo fu un periodo di circa due mesi, cioè dall’inizio di luglio alla fine di agosto. E senza dubbio i mucchi di cadaveri e il disgustosissimo fetore nutrivano ed alimentavano il contagio. Infatti, benché fossero state scavate fosse enormi e buche profonde per accogliere cadaveri, da esse giungeva l’influsso nocivo della puzza non solo alle case vicine, ma penetrava anche nelle parti più interne della città e poco mancò che fossero contaminate l’aria stessa e la porzione di Cielo diffusa sopra la città. Addirittura in quel quartiere che si chiamava Porta Nuova, dove si visita il tempio della martire Anastasia e una croce lì posta in un bivio, gli abitanti delle case furono costretti a trasferirsi altrove non potendo sopportare tale fetore. E poiché non erano state preparate le buche per accogliere i cadaveri e non bastavano i carri per trasportarli, i corpi giacevano putrefatti lungo le vie. Molti mentre procedevano verso il lazzaretto o altri ricoveri preparati fuori della città e vi andavano con le proprie gambe, cadevano avendo affrettato la morte e si aggiungevano ai cadaveri già sparsi a terra; e quasi non era possibile muovere il passo o appoggiare i piedi senza che in ogni momento fossero toccate membra di morti. Quei corpi inoltre, sia per il fango e la melma dovuti alle continue piogge, sia per la nudità delle membra, sia per la marcia delle ulcere, turbavano gli animi e li riempivano di terrore. I becchini prendendoli e ponendoli sui carri non potevano coprirli né velarli né comporli a causa del gran numero, ma venivano trasportati con le gambe e le braccia penzolanti. Persino le teste pendevano se per caso qualche corpo era di statura un po’ più grande del normale. E intanto i becchini, cosa che potrebbe sembrare quasi incredibile a dirsi, si erano abituati a trattare con tanta familiarità la morte e i cadaveri che si sedevano su di essi e, stando seduti, bevevano in continuità. Portavano via i cadaveri dalle case dopo esserseli caricati sulle spalle come una bisaccia o un sacco, e li gettavano sui carri. Spesso accadde che, mentre qualche morto veniva tolto da un letto, un braccio che un becchino per caso afferrava, essendosi ormai putrefatta e dissolta l’articolazione, si staccava dal busto, e allora abbracciato l’osceno peso essi lo affidavano al carro, così come sono portate tutte le altre merci. Talora furono visti trenta carri in fila ininterrotta pesantemente carichi di cadaveri quanto dei cavalli aggiogati insieme potevano tirare. E il vicinato della Chiesa cattedrale aveva approntato un carro di inusuale grandezza, col quale, fatto andare e tornare piuttosto frequentemente, si sarebbe potuta svuotare qualunque altra città. I carri talvolta erano gravati da tanto peso che i giumenti aggiogati non bastavano ed era necessario cercare altri animali e porli sotto. [¼] Gravissimo pericolo di contrarre la peste era nello stesso camminare, e anzitutto si stava in guardia dalle pareti stesse a causa degli unguenti avvelenati che era possibile scorgere qua e là, e a uno dei nostri familiari poiché si era avvicinato troppo a un muro cadde sulla testa molta polvere avvelenata. Noi pure a causa del nostro compito, avendo la necessità di recarci in ogni località, non mettevamo il piede a caso dappertutto, dal momento che ci si presentavano davanti pagliericci sui quali si trovavano alcuni morti o le stesse bende per i bubboni e i carbonchi gettate giù dalle finestre. Serviva a mantenere la salute il fatto che, come ciascuno usciva di casa, subito al ritorno

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cambiasse le scarpe e la veste. Io avevo raccomandato ai preti di usare una tonaca più corta o anche una sopravveste di lino di colore nero, per il fatto che questo indumento era più sicuro in tale occasione e la lana raccoglie più facilmente e più tenacemente la peste. Già si vedevano aperte le case, non vi era più alcun battente di finestre e usci: tutte quante erano abbandonate al saccheggio per becchini e ladri. [¼] Dapprima campanelli e vesti di colore rosso servirono come segni distintivi per costoro, poi infierendo sempre più la malattia li tralasciarono e non erano più individuati da alcun segnale. Tale razza d’uomini scacciati a prezzo fuori dalle sue aspre montagne correva a la morte per avidità di guadagno. Ma ce ne furono anche alcuni che sopravvissero e si scoprì che tutti i peggiori e i più delinquenti furono subito estinti, che la peste risparmiò per qualche tempo quelli migliori. [¼] Ai primi paurosi sospetti di peste avevano creduto i Magistrati e i maggiorenti della città che potesse bastare ad accogliere la moltitudine il lazzaretto che fecero costruire fuori delle mura della città anticamente i Duchi di Milano, ed esso è meritatamente annoverato tra i nostri edifici degni di ammirazione. Ma in breve quegli stessi edifici si trovarono pieni zeppi e fu necessario far costruire altrove dei ricoveri. Entro quei recinti gregoriani morivano cinquecento ogni giorno e ciò per molto tempo. Tali recinti, ovvero mura del lazzaretto, nei primi giorni erano stati certo un opportuno rifugio per accogliere la moltitudine e liberare le case. Peraltro quando ormai tanta era la gente portata lì che erano disposti in dieci per ogni camera ed era necessario sistemare dei letti all’aperto in tutti i portici, si credette che la soluzione stessa avesse alimentato più intensamente la peste.

ALESSANDRO MANZONI I PROMESSI SPOSI Cap. XXXI La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimenti che non si fermò qui, ma invase e spopolò buona parte d’Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente; chè della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto. […] Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli nell’ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d’essi, d’osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro. Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatrè anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di San Carlo. […] il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso. […] L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, neppur sul nome. […]Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano … del resto, dal riscontro d’altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu , prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo il lettore ce ne dispensa.

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Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, si ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì. Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto, in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non si propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio. Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati. Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, « della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe, » dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. […] ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti all’opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. […] In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. […] cap. XXXII […] Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevano presa un’altra: di chiedere al

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cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo. Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’ occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale .Ché il sospetto sopito dell’ unzioni s’era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima. S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno, le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’ appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza di una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto  d’uomo interessato a stornar dal vero  l’attenzion del pubblico, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore. […] … in poco tempo , non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto … montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, « per le diligenze fatte », dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si potè tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso. Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco monos; Gaspare Bugatti ( in una descrizion della peste antecedente ), dal latino monere; ma insieme dubita, con più ragione, che sia parola tedesca, per esser quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne’ Grigioni. Né sarebbe assurdo il crederlo una troncatura del vocabolo monathlic ( mensuale ); giacchè, nell’incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese. L’impiego speciale degli apparitori era di precedere i carri, avvertendo, col suono d’ un campanello, i passeggieri, che si ritirassero. I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non

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bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva. E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s’istituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non potè ottener nulla. « Si doueua non di meno », dice il Tadino, « compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldatesca senza regola, et rispetto alcuno; come molto meno nell’infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, né provisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati » Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta! Così pure, trovandosi colma di cadaveri un’ampia, ma unica fossa, ch’era stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s’eran ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Né si vede come sarebbe andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que’ due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s’ impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell’avvenire. Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedì poi al lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita. Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne potè avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: chè, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furono degli altri in cui la carità nacque al cessare di ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furono pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego. Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n’era; sempre si videro mescolati, confusi co’ languenti, co’ moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni all’incirca. […] Così, ne’ pubblici infortuni e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione di attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non s’adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de’ commissari, come abbiam detto; sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l’autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di

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buon governo. Un tal ordine di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de’ rubamenti, e come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con denari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi. Si disse ( e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere ), si disse, e l’afferma anche il Tadino, che i monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com’era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’introducevan nelle case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote d’abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo stesso, e anche cose peggiori. […] La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall’ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, un’attrattiva che dominasse la volontà. I vaneggiamenti degl’infermi che accusavan sé stessi di ciò che avevan temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d’ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s’eran figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a dar miglior ragione della persuasion generale e dell’ affermazioni di molti scrittori. Così nel lungo e tristo periodo de’ processi per stregoneria, le confessioni, non sempre estorte, degl’imputati, non serviron poco a promovere e a mantener l’opinione che regnava intorno ad essa: chè, quando un’opinione regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte le maniere, a tentar tutte le uscite, a scorrer per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla. […] Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l’aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d’occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l’ era peste, e s’attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell’unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova dell’unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d’aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come, al suo rifiuto, quelli se n’erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, « che sino al far del giorno vi dimororno». Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà occasion d’ osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d’idee possa esser scompigliata da un’altra serie d’idee, che ci si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo. Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell’unzioni. Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant’altre cose, superiore alla più parte de’ suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d’un’opinione comune anche sulle menti più nobili. S’è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell’opinione avesse gran parte la credulità, l’ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d’aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d’esagerato, ma

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insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento c’è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente. « Era opinion comune », dice a un di presso, « che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l’arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate.» […] I processi che ne vennero in conseguenza, non erano certamente i primi d’un tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Chè, per tacere dell’antichità, e accennar solo qualcosa de’ tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim’ anno 1630, furono processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d’aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme. Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors’anche il più osservabile; o, almeno, c’è più campo di farci sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici. E quantunque uno scrittore lodato poco sopra se ne sia occupato, pure, essendosi lui proposto, non tanto di farne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza, c’è parso che la storia potesse esser materia d’un nuovo lavoro. […]

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